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In un mondo in pieno caos, con un ordine geopolitico – mantenuto sostanzialmente stabile dalla pax americana negli ultimi trent’anni dopo la vittoria nella Guerra Fredda – rimesso, oggi, in discussione da Stati o soggetti parastatali sempre più aggressivi, anche alle porte dell’Europa (si legga Russia) e nel cuore del Mediterraneo (si legga Iran e Hamas), è tornato centrale, anche nella dimensione pubblica, il ruolo dell’intelligence.

In questo scenario, che si compone di molte e nuove sfide alla sicurezza nazionale degli Stati democratici e liberali – dalle minacce cyber alla guerra economica e normativa fino alla guerra cd. boots on the ground tragicamente ritornata nel continente europeo – i servizi segreti necessitano certamente di maggiori investimenti, risorse, mezzi e anche di riforme istituzionali, più o meno pervasive, per poter supportare nel modo più efficace possibile il decisore politico.

L’Italia, che pure vanta uno dei comparti più apprezzati al mondo, non può certamente sottrarsi a questo compito, anche perché l’ultimo intervento normativo corposo in materia è del 2007, sulla scia dell’11 settembre 2001 e della “guerra al terrorismo”, in un mondo che oggi – dopo l’invasione russa dell’Ucraina del 2022 e le sfide che Paesi come Iran, Corea del Nord e Cina stanno costantemente lanciando nel continente eurasiatico al mondo occidentale – non è più lo stesso.

Da alcuni mesi, nel dibattito politico, sulla spinta riformatrice dell’attuale governo, si (ri)discute dell’ipotesi della creazione di un’unica agenzia d’intelligence, con la conseguente fusione di Aisi e Aise, che possa superare l’attuale modello binario incentrato sulla competenza territoriale. Quest’operazione lascerebbe qualche perplessità, sollevata anche da diversi esperti del settore nonché, negli anni scorsi, anche da diversi ex vertici dei servizi stessi, abbastanza prudenti sull’integrazione tra le due agenzie, perché la qualità e la quantità delle sfide che si pongono – e si porranno – davanti ai servizi richiederebbero, più propriamente, una super specializzazione dell’agenzia di volta in volta incaricata che si può ottenere soltanto, con il tempo, affidando a essa i dossier di competenza specifici. Inoltre, la fusione non determinerebbe, probabilmente, una rinnovata velocità nella catena di gestione e trasmissione dell’informazione, stante il necessario ruolo di direzione e filtro del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza o di un altro organismo in seno alla presidenza del Consiglio.

Una soluzione potrebbe essere quella di suddividere, invece, sul modello americano (la United States Intelligence Community è composta da ben 17 agenzie) i compiti delle due agenzie per competenza, nel caso in cui il Parlamento ritenga che l’attuale assetto interni/estero non sia più attuale e foriero di sovrapposizioni talvolta inevitabili davanti a minacce fluide senza confini territoriali predeterminati. L’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, pur posta al di fuori dal perimetro della sicurezza nazionale, è andata correttamente in questa direzione.

Allo stesso tempo, per poter consentire un lavoro più efficace all’intelligence, sarebbe necessario intervenire sull’apparato normativo che regola le cosiddette garanzie funzionali degli operatori delle due agenzie, introdotto sempre nel 2007, che consente – con regole e procedure autorizzative predeterminate – agli agenti di poter commettere dei fatti che, in condizioni soggettive e oggettive normali, costituirebbero un reato. Si tratta di un istituto molto delicato e complesso che si inserisce nel rapporto istituzionale tra poteri, e in particolare tra politica, intelligence e magistratura, e che quindi va trattato con molta accortezza.

In queste settimane, attraverso lo strumento del decreto Milleproroghe il governo ha esteso, per un altro anno, la possibilità di compiere taluni reati in materia di terrorismo; una deroga, introdotta nel 2015 durante l’offensiva dell’ISIS, al regime delle garanzie funzionali ordinarie previste dalla legge 124 del 2007 che andava in scadenza a fine gennaio e che, con un ritorno della minaccia del terrorismo islamista di nuovo incombente in Europa dopo la nuova crisi in Medio Oriente – non poteva essere messa in discussione. Sempre nelle ultime settimane del 2023, il governo ha approvato in Consiglio dei ministri lo schema di un nuovo ddl Sicurezza, ancora tutto da definire e per il momento posto in stand by, il quale interverrebbe in materia di garanzie funzionali, con un provvedimento sostanziale, questa volta diretto sulla struttura della legge 124, determinando l’allargamento delle ipotesi di applicabilità della causa di giustificazione su nuove ipotesi delittuose, ben più gravi. Per farla breve, si permetterebbe ai servizi di poter dirigere cellule terroristiche, e non soltanto di infiltrarle come partecipanti, con l’obiettivo di carpire informazioni quanto più elevate possibile. Le ipotesi normative al vaglio del ddl Sicurezza, pur al momento provvisorie, sembrano sostanzialmente condivisibili.

Ma in virtù delle sfide nuove che attendono i Servizi e in vista di una riforma più ampia che coinvolga il sistema di governance dell’intelligence italiana, sembrerebbe utile un nuovo riordino complessivo delle garanzie funzionali che possa consentire agli operatori di raggiungere i fini istituzionali e operativi cui sono preposti, adeguando il sistema normativo alle contingenze attuali, senza però sacrificare i diritti costituzionali fondamentali che non possono essere scalfiti neppure dal ricorso all’esigenza della sicurezza nazionale.

L’attuale catalogo di reati presupposto della causa di giustificazione, previsto dall’articolo 17 della legge 124, non risulta più adeguato, in quanto prevede, tra l’altro, principalmente un elenco generico di divieti relativi a categorie molto ampie di beni giuridici da non dover ledere; tale soluzione, attualmente in vigore, finisce per ridurre gli spazi di operatività per i servizi al riparo dal sindacato penale. Insomma, gli agenti – nelle condizioni attuali – possono poco.

Un’ipotesi di riforma sui servizi potrebbe – tra i vari obiettivi – riscrivere l’articolo 17 e prevedere un elenco maggiormente tassativo con l’indicazione chiara, e in positivo, dei reati che possono essere commessi dagli agenti e che cadrebbero all’interno dell’ombrello protettivo delle garanzie. In questo modo si risolverebbe anche la poca chiarezza su quali azioni siano effettivamente scriminate e quindi al riparo dall’intervento dell’autorità giudiziaria. La valutazione sulle operazioni d’intelligence resta, infatti, una decisione “altamente” politica che non dovrebbe correre il rischio di essere rimessa, per l’incertezza interpretativa del testo normativo, a un livello giurisdizionale, al netto del controllo sulla legittimità dell’autorizzazione governativa della Corte costituzionale. Il contenuto di un’operazione d’intelligence, autorizzata secondo la legge, e il merito di questa, non possono essere decisi in un’aula di tribunale in modo discrezionale. La responsabilità è politica e ne risponde il presidente del Consiglio davanti al Parlamento. La Corte costituzionale, su questo punto, è stata più volte molto chiara.

Tale ampliamento dei reati scriminabili – ovvero permessi – comunque potrebbe essere bilanciato con un diverso sistema di checks and balances tra presidente del Consiglio dei ministri – responsabile della politica di informazione e sicurezza oltre che della guida del governo – e Copasir – organo del Parlamento che rappresenta una diretta espressione dei cittadini – persino attraverso un rafforzamento o la totale esclusività dei poteri del presidente del Consiglio in materia di autorizzazione alla commissione di reati e un controllo del comitato più incisivo nei tempi e nei modi. Le sfide incombono; è importante farsi trovare pronti.

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