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Il dollaro torna ad essere una moneta “forte”. O come scrive Fortune, King Dollar – ed è “l’evento macroeconomico dell’anno” insieme al crollo del prezzo del petrolio.

Il valore del biglietto verde è aumentato del 24% da giugno toccando il massimo degli ultimi 11 anni. Un bene o un male per gli americani e l’economia mondiale? Gli analisti sono divisi ma intanto è la Federal Reserve a dover decidere in fretta se il dollaro forte induce a cambiare le sue politiche monetarie.

PIU’ POTERE DI ACQUISTO AGLI AMERICANI

Sicuramente molti americani godranno di graduali benefici dal dollaro forte nella loro vita quotidiana: prima si abbasserà ulteriormente il costo dei beni importati dalle aziende (già in flessione da sette mesi consecutivi negli Stati Uniti), poi caleranno i prezzi pagati dai consumatori, soprattutto per generi come abbigliamento, elettronica e automobili, spiegano gli economisti di Barclays, Goldman Sachs e JPMorgan Chase. Il dollaro funzionerà d’ora in poi come freno alla crescita dell’inflazione.

“L’effetto anti-inflazione generato dal calo del prezzo dell’energia si esaurirà alla fine del primo trimestre mentre quello del dollaro forte si farà sentire nel secondo e terzo trimestre 2015”, indica Michael Gapen, chief U.S. economist di Barclays a New York. “Non potrebbe andare meglio per i consumatori”, aggiunge Gregory Daco, lead U.S. economist di Oxford Economics a New York.

AGGIUSTAMENTI GLOBALI

Ma non solo. Secondo alcuni analisti, il dollaro forte riporta competitività anche in Europa e Asia. “Al momento questo è un trend positivo per il dollaro perché fa parte di un meccanismo di aggiustamento nell’economia globale”, afferma Jeremy Lawson, chief economist di Standard Life Investments a Edimburgo. Il dollaro si sta apprezzando rapidamente, ma è un rialzo che arriva dopo un periodo di crisi e quindi “non si può dire che il dollaro sia sopravvalutato”. Dietro questo meccanismo di aggiustamento si cela una netta divergenza tra la politica monetaria Usa e quelle seguite nel resto del mondo. Ue e Giappone svalutano il loro denaro per risollevare l’economia e, anche se gli investitori stranieri ora cercheranno i bond americani perché rendono di più, “Europa e Giappone dovrebbero restare più interessanti per gli asset di rischio rispetto agli Usa”, nota Robin Anderson, economista di Principal Global Investors. Questo ripristina gli equilibri globali e crea uno “scenario favorevole”.

LA GUERRA DELLE VALUTE

Tutti contenti? Non proprio. “C’è una guerra delle valute in corso e gli Stati Uniti la stanno perdendo”, scrive il Washington Post. “Il valore dell’euro è crollato fino alla quasi parità col dollaro e non si fermerà qui. Il dollaro forte è una cattiva notizia per le aziende americane che vogliono vendere i propri prodotti fuori dagli Usa”.

Del resto Wall Street ha mostrato segnali di nervosismo, soprattutto nei confronti dei titoli di alcune multinazionali, che fanno affari all’estero. Non è solo l’euro che sta perdendo valore rispetto al dollaro: il biglietto verde si è rafforzato rispetto a tutte e 30 le altre valute maggiori l’anno scorso ed è salito del 9% finora nel 2015.

Perché il dollaro si è apprezzato tanto? Per il rafforzarsi dell’economia, certo, ma anche per le azioni delle banche centrali sulla politica monetaria e la divergenza tra le politiche Usa e quelle degli altri paesi, secondo il Post. “L’economia americana si è ripresa a tal punto che la Fed si prepara ad alzare i tassi di interesse, il contrario di quello che fanno tutti gli altri. Gli investitori abbandonano gli euro a favore del dollaro e questo non cambierà finché le politiche monetarie di Usa e Europa divergeranno tanto. Per questo Deutsche Bank si aspetta che l’euro continuerà a scendere fino a 90 centesimi di dollaro a fine 2016 e a 85 centesimi a fine 2017. La Fed farebbe meglio a aspettare ad alzare i tassi. Anche se la disoccupazione è scesa a livelli-norma (5,5%), non c’è nessuna fretta di intervenire perché non ci sono segnali di inflazione o bolle. La Fed non vorrà essere l’unica banca centrale che alza i tassi – un dollaro forte è come un dazio contro le nostre esportazioni e un sussidio alle nostre importazioni; non deve farlo finché non deve e ora non c’è alcuna necessità”.

EFFETTO-EUROPA

Chris Williamson, chief economist di Markit, che a dicembre ha previsto che l’euro avrebbe raggiunto nel 2015 la parità col dollaro, sostiene che proprio la divergenza tra le politiche monetarie della banca centrale Usa e la Bce sarà il principale fattore che influirà sui mercati nel 2015.

Gli analisti di Commerzbank dicono che il differenziale tra i rendimenti dei bond europei e quelli Usa spinge in basso il valore dell’euro rispetto al dollaro.

A dicembre solo il 32% degli economisti dell’eurozona sentiti dal Financial Times diceva che l’euro avrebbe raggiunto la parità col dollaro nel 2015; ora la maggior parte degli economisti si aspetta che l’euro continui a perdere valore rispetto al biglietto verde con l’avanzare della ripresa economica Usa e con l’atteso aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve. Anche Danske Bank, che aveva già abbassato il target per la coppia euro-dollaro a 1,05 dollari, l’ha ulteriormente ridotto a 1,00 dollaro.

“L’apprezzamento del dollaro probabilmente proseguirà fintantoché ci si aspetta che la politica monetaria Usa diverga da quelle delle altre economie maggiori”, nota Carl Riccadonna, Bloomberg Intelligence chief U.S. economist.

UN FRENO O UNO STIMOLO ALLA CRESCITA USA?

“L’economia americana crescerebbe probabilmente a un ritmo vicino al 4% annuo se non fosse per la debolezza economica degli altri paesi che sta facendo salire il valore del dollaro contro l’euro e lo yen”, ha dichiarato il presidente della San Francisco Federal Reserve John Williams. “Se le condizioni globali restano invariate, un dollaro forte è un freno alla crescita americana”. Secondo Williams l’economia Usa crescerà meno del 3% a causa dell’effetto-freno del dollaro forte.

Jim O’Sullivan di High Frequency Economics stima che il dollaro forte potrebbe togliere 0.3 – 0.4 punti alla crescita economica americana quest’anno. Ma è davvero tutto negativo per gli americani?

Nariman Behravesh, chief economist di IHS Inc. a Lexington, Massachusetts, dice che, insieme ai prezzi dell’energia in flessione, “il dollaro forte è una fonte di buona deflazione” che contrasta con il dannoso abbassamento dei prezzi generato dalla contrazione della domanda.

“Il dollaro sta salendo perché l’economia americana sta andando bene rispetto al resto del mondo”, nota Fortune: la crescita del Pil Usa non può essere vista come fattore negativo. Più denaro estero fluirà verso gli Stati Uniti per approfittare della relativa forza economica americana, facendo salire il valore degli asset Usa, compresi azioni e bond, mentre le imprese con operazioni all’estero, se da un lato potrebbero vedersi ridurre i i guadagni fatti fuori dagli Usa, dall’altro troveranno più conveniente acquistare materie prime e componenti e mettere su stabilimenti produttivi.

IL DILEMMA DELLA FED

Le tante variabili in gioco spiegano perché per la Federal Reserve decidere come rispondere al dollaro forte non è facile. Le recenti minute degli incontri della banca centrale americana mostrano che alcuni dei governatori pensano che l’apprezzamento del dollaro debba portare a tenere bassi i tassi di interesse per più tempo; altri invece pensano che il dollaro forte rappresenti uno stimolo all’economia ed è quindi ora di alzare i tassi.

Gary Cohn, president e operating chief di Goldman Sachs, osserva che la Fed “continuerà a trovarsi in questo arduo dilemma in cui vorrebbe alzare i tassi di interesse – e capisco perché voglia farlo – ma è frenata dalle circostanze e preoccupata dalla forza del dollaro, mentre altri paesi nel mondo continueranno a svalutare”.

La crescita economica, col rapido miglioramento del mercato del lavoro, giustificherebbe infatti un aumento dei tassi di interesse; d’altro canto, l’indebolimento dell’inflazione previsto per metà anno potrebbe esigere di rimandare la misura per permettere all’economia di spingere ancora più forte sull’acceleratore.

Gapen di Barclays e Daco di Oxford Economics pensano che il dollaro forte ridurrà l’inflazione americana anno su anno di 0,2 punti percentuali. Gli economisti di JPMorgan Chase prevedono che l’effetto sarà due volte maggiore. Secondo Gapen la banca centrale alzerà il tasso di riferimento a giugno, ma, siccome i prezzi delle importazioni continueranno a scendere, diventerà poi più paziente.

La presidente della Fed Janet Yellen lo scorso mese ha ammesso che il calo del prezzo del petrolio e il rafforzamento del dollaro stanno allontanando l’inflazione dai valori previsti dalla banca centrale. Ma finora la Fed non ha dato indicazioni su come si comporterà a giugno.

“Non sarebbe positivo per i mercati se la Fed volesse alzare comunque il costo del denaro quando l’inflazione non dà segni di ripresa”, afferma Thomas Costerg, economista della Standard Chartered Bank a New York. “Vedere fino a che punto può scendere l’inflazione è importante per la Fed e questo non si saprà fino a metà 2015”.

Altri pensano che la spinta alla deflazione non tratterrà la Fed dall’alzare i tassi di interesse a metà anno. “Se i dati sull’inflazione fossero un ostacolo per la Fed per attuare la misura a giugno lo avrebbe già fatto sapere”, sostiene Joshua Shapiro, chief U.S. economist di Maria Fiorini Ramirez a New York.

Anzi, all’ultimo meeting a gennaio, la Fed ha concluso che, pur se l’aumento dei prezzi probabilmente rallenterà nei prossimi mesi, l’inflazione dovrebbe crescere gradualmente verso il 2% nel medio termine coll’ulteriore miglioramento del mercato del lavoro e il dissiparsi degli effetti transitori dell’abbassamento dei prezzi dell’energia e di altri fattori.

La Fed si riunirà in settimana per discutere della strategia da adottare. Potrebbero essere gettate le basi per l’aumento dei tassi di interesse negli Usa già a giugno. O forse a settembre. A meno che la Fed non decida, come suggeriscono alcuni, di essere “paziente”.

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