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Alla quasi totalità del ceto politico professionale che anima i retroscena dei Palazzi romani ma non riesce a disegnare un progetto comprensibile che possa consentire un decremento significativo del disamore della maggioranza dei cittadini per chi ci governa come per chi dovrebbe governarci scacciando i primi, è il senso del reale che difetta. Le cronache narrano di centinaia di convegni – ora particolarmente numerosi, e non soltanto nelle regioni in cui si tornerà a votare a breve – che porterebbero a ipotizzare, specie nel centrodestra, un improvviso risveglio di orgoglio civile e di nuove disponibilità ad impegnarsi per tentare di uscire dalla melmostosa palude politica e parlamentare. C’è da augurarsi che la corsa a mettersi in mostra con autorappresentazioni di solito accolte con compiacenza dai media, si concretizzi invece in qualche idea non peregrina e che demarchi meglio il pluralismo politico nel tempo che viviamo.

Forse abbonda anche un persistente cinismo negli osservatori: che sono generosi nei pettegolezzi e fanno apparire la politica italiana come definitivamente perduta per ancora un lungo ciclo storico, assegnandosi ruoli eccessivi di giudizi solerti e neutrali ed essendo, invece, anch’essi – forse per primi – i maggiori distributori di odi e personalismi che stanno massacrando tutte le formazioni politiche nazionali. Le caste pretenziose sono tante; di idee innovative se ne vedono circolare sempre meno: limitandosi la più parte a ripetere ritornelli avanguardistici privi di senso e di realismo. Sicché ciò che avviene nei Palazzi della politica viene sistematicamente demonizzato, contribuendo in maniera cospicua ad estendere, non a comprimere e a ridurre, l’antipolitica. Che è poi diventata la caratteristica principale delle discussioni prevalenti in tv e sui giornali.

Negli ultimissimi giorni si vanno moltiplicando le iniziative di personaggi più o meno noti – e più o meno sconosciuti – , ognuno dei quali giura di possedere, in esclusiva, le chiavi del progresso, della riscossa e della rinascita. A cominciare dal vertice dello Stato, ormai in condizioni di alta precarietà, sicuramente risapute e oggettivamente valide, ma che vengono valutate come occasioni di rilancio di personalità consunte e non propriamente dotate di storie notabili sufficienti a riciclarsi. Mentre poco, o per nulla, si approfitta di circostanze obbiettive e ormai prossime a scadenza, per individuare le caratteristiche teoriche che si dovrebbero richiedere per scegliere un vero superpartes, avente i requisiti giusti atti a riequilibrare non accordi generici fra i partiti, ma l’intera intelaiatura istituzionale: che è maturata in senso materiale (abbondantemente spostandosi dall’architettura costituzionale originaria) e potrebbe costituire una base di discussione utile a raccordare realisticamente quasi tutte le parti politiche. Indipendentemente dalle dimensioni di tutte quelle che capiscono come sia giunto il tempo non solo di rottamare le vetuste nomenclature, bensì di definire un inedito ordinamento costituzionale e istituzionale che emargini al massimo gli abusi di potere e l’insignificanza degli stessi singoli grandi elettori presidenziali.

Sembra facile parlarne, eppure è molto complesso tanto l’apparato di pesi e contrappesi giuridico-costituzionali da vivacizzare non solo in un sistema come il nostro (che fa acqua da tutte le parti), mentre occorre prendere atto che sta mutando la democrazia in genere. Come si può constatare riflettendo su quanto sta emergendo nella principale democrazia del mondo – gli Stati Uniti d’America -, dove le elezioni di medio termine, avendo decretato la forte affermazione della minoranza repubblicana della vigilia e posto in minoranza nel congresso il presidente uscente – che peraltro non potrà più neppure candidarsi –, sta ponendo a politici e politologi nuove questioni complesse: non risolvibili con le litanie delle primarie e che, piuttosto, richiedono dibattiti molto diversi dalle convenzioni folcloristiche ridottesi a parate di stelle e stelline destinate a brillare lo spazio di un mattino.

Poiché questa è la condizione della democrazia nel modello principale, il nordamericano, anche le varie congetture di mutamenti costituzionali nelle democrazie meno mature, come l’italiana, necessitano di attente meditazioni e revisioni. Non di proposte furbastre od opportunistiche. Gli stessi patti del Nazareno – validi proceduralmente ma anche contenutisticamente – non sono per esempio davvero comparabili con variabili parlamentaristiche congiunturali, di tipo corsaro o stravagante, tipo accordarsi comunque con qualcuno – chiunque esso sia – a cominciare dai movimenti avulsi dalla politica e specialisti di protesta improduttiva, populista, antipolitica. Si obbietta: è tempo d’azione, non di ridiscussione! Giusto. Ma attenzione a come si cambia, e perché. Il cambiare per cambiare può anche mutare la qualità della politica e fare riaffiorare l’assolutismo.

Matteo Renzi e i rischi del cambiare per cambiare

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