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L’avanzata del terrorismo di Stato è ormai inarrestabile. Dopo che nei territori tra Siria e Iraq si è creata la prima cellula califfale, ecco che adesso è il turno dell’Africa settentrionale, e in particolare della Libia, quintessenza della fallimentare primavera araba divenuta terra di conquista. Naturalmente, ciò detto tralasciando la Nigeria che fa caso a sé.

Se si dà uno sguardo a una delle cartine politiche presenti sui quotidiani di oggi, che indicano in rosso o in nero le zone interessate dall’islamismo violento e persecutore, è intuitivamente semplice rendersi conto della gravità della minaccia in cui siamo infilati come parte delle democrazie occidentali che affacciano sul Mediterraneo.

Ormai la nuova frontiera del terrore è l’Europa. E, come la storia millenaria insegna, prima di tutto la penisola italiana. Ventuno cristiani copti uccisi, la città di Tripoli in mano della sventolante bandiera nera e il ministro Gentiloni definito neo crociato sono gli spunti spettacolari che rendono incisivo e veritiero l’affondo verso Nord dell’Isis. Sono minacce che ci mettono innanzi ad una stagione bellicosa che è solo all’inizio.

D’altronde, rispetto alla Giordania, che ha reagito applicando il taglione, e rispetto all’Egitto che ha bombardato la Libia, il Vecchio Continente appare friabile e perforabile senza grandi difficoltà, completamente estraneo nei tempi e nei modi a una reazione adeguata. I limiti sono molteplici: un processo decisionale bizantino, mediato da autorizzazioni internazionali di istituzioni ormai desuete o inconsistenti, vedi le Nazioni Unite, e organismi concreti di intervento o inesistenti, come la difesa comune europea, o arrugginiti come la Nato. Inoltre, dappertutto leggi troppo tenere contro i criminali violenti.

Alcune considerazioni fuori dal coro perciò devono essere fatte. Considerando che siamo parte di un grande leviatano faraonico, l’Unione Europea, totalmente inefficiente dal punto di vista della sicurezza, il diritto all’autodifesa costituisce uno dei primitivi e originari diritti umani dei popoli. L’Italia ha concepito la guerra solo come mezzo di difesa, nella sua Costituzione, un fatto che dimostra, se ce ne fosse bisogno, il carattere anacronistico del nostro codice repubblicano e la poca tutela che lo Stato ci garantisce a livello comunitario. Ma quel che conta è che, rispetto al periodo della Guerra Fredda, in cui le sovranità erano guidate dalle due macro aree occidentali e orientali, e noi potevamo contare sugli Stati Uniti, questo nuovo mondo è l’inverso, molto più cattivo e ci trova sguarniti e spezzettati, vecchi e deboli: regnano nuovamente i popoli come soggetti supremi praticamente ovunque, e in Europa non sappiamo neanche che cosa definisca realmente il senso di sacrificio e appartenenza alla nazione. Adesso si richiedono condizioni di difesa proporzionati all’incedere di minacce visibili e invisibili di altro tipo rispetto a ieri, e si necessità di soluzioni rapide ed efficienti. Il tempo e la tecnologia è dalla nostra parte. La debolezza flaccida del nostro costume di vita dalla loro.

In aggiunta dobbiamo considerare che i flussi migratori, da noi sempre accettati per ragioni umanitarie, ci rendono in specie un Paese privo di controllo delle presenze nel territorio, assolutamente non in grado di arginare un eventuale attacco terroristico a Roma o in qualche altra grande città.

Teniamo conto, oltretutto, che al momento arrivano barconi, pieni di profughi, che ieri hanno deciso perfino di sparare alle nostre vedette. Domani potrebbero arrivare navi militari, mimetizzate da imbarcazioni civili, e bastimenti civili con cellule terroristiche infiltrate.

Le reazioni del Governo, sia concesso dirlo, paiono troppo prudenti, e quindi troppo delicate e insicure. L’Isis avanza spostando i propri confini in avanti, e, come dimostrato in Giordania, si ferma solo laddove vi è una resistenza bellica pari e opposta.

Noi, Paese esposto sul mare, non possiamo appunto per questo considerare la guerra un’ultima istanza, perché ciò sarebbe comunque una reazione tardiva e successiva a perdite umane, civili o militari.

La reazione deve essere, di conseguenza, militare, e soprattutto immediata, anche se gestita dalla politica e possibilmente operata insieme alla struttura Nato. Non si tratta di andare a bombardare, ma di considerare che la difesa dei nostri cittadini abbia una precedenza assoluta su tutto il resto. Accettare gli sbarchi è diventata un’opzione troppo pericolosa per essere portata avanti, e non deve essere fatta più perché costa e abbiamo bisogno di risorse umane ed economiche per difenderci. Impiegare forze armate per scopi umanitari è una scelta seconda, infatti, rispetto alla garanzia di sicurezza con cui vigilare su tutto e tutti a trecentosessanta gradi.

I nostri limiti sono inversamente proporzionali alla capacità che il Governo e il Parlamento avranno nel decifrare il cambiamento di livello che le nostre difese devono assumere rispetto anche solo a una settimana fa.

Quando ti è dichiarata guerra con minacce pubbliche, sei in guerra, anche se sei pacifista. Forse il Governo dovrebbe anticipare a oggi, al massimo a domani, il dibattito in aula, non attendendo giovedì, e attribuire poteri eccezionali ai vertici operativi di esercito, marina e aereonautica, facendoli stare a strettissimo contatto con l’esecutivo per non dire al suo interno. Sarebbe un segnale importante, ad esempio, mettere un generale di esperienza a dirigere la difesa.

Diciamola tutta. Avere nel Governo chi è in grado di condurre l’eventualità peggiore, sarebbe la scelta giusta, e darebbe un’immagine forte del nostro Stato. E’ vero, l’Italia non è preparata culturalmente a questo, ma può lo stesso utilizzare la grande professionalità dei nostri uomini e donne in divisa per gestire ogni eventualità e arginare qualsiasi evento, unita a un po’ di astuzia diplomatica.

L’importante, insomma, è che la politica abbia gli attributi. Perché questa fase non è per nani, ballerine, comunicatori taroccati e bei visetti, ma per leader intelligenti e preparati che sappiano assumersi con virtù eccezionali l’onere e l’onore di prendere decisioni difficilissime, perché riguardanti la vita e la morte di tante persone, e adeguate a una logica di guerra mondiale a pezzi, che adesso ci vede al centro di una polveriera e al confine di un conflitto planetario.

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