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Ormai tutto è politica e se c’è scontro meglio è, come dimostra il dibattito sulla Legge delega sul Lavoro e sulla Legge di Stabilità. E’ evidente, soprattutto, nel rapporto tra governo e sindacati e nelle dinamiche tra sindacati stessi. E’ successo alla Cgil che il 25 ottobre è andata in piazza da sola contro l’abolizione dell’articolo 18 anche se il disegno di legge a cui si opponeva non lo citava neppure. Alla fine, però, è prevalsa nell’opinione pubblica solo l’analisi sulle possibilità di scissione, o meno, della minoranza del Pd, ch’era nel “corteo rosso”, rispetto al partito stesso.

Stessa sorte è toccata all’incontro di lunedì scorso sulla Legge di Stabilità al ministero del Lavoro: da una parte i ministri Poletti, Padoan e Madia, col sottosegretario Delrio; dall’altra, le segretarie generali di Cgil e Cisl Camusso e Furlan, col segretario generale aggiunto Uil Barbagallo. “Valuteremo le vostre indicazioni”, hanno detto i rappresentanti del governo; “Non hanno mandato a trattare”, hanno dedotto i sindacalisti. Il premier ha chiuso la diatriba da uno studio televisivo: “Se i sindacati vogliono trattare si facciano eleggere in Parlamento”.

“Politique d’abord” avrebbe sintetizzato Pietro Nenni, solo che ora è contro le organizzazioni intermedie rappresentative di interessi. E’ evidente che ora per il sindacato si apre una fase lunga, in cui si dovrà mettere in sicurezza soprattutto dal punto di vista della consistenza organizzativa e, contemporaneamente, porre in essere una proposta efficace, di matrice riformista, moderna ed europea, in grado di reggere l’enunciazione riformatrice del governo e di sconfiggere i diffusi massimalismi tuttora presenti nella propria parte.

L’impossibilità a trattare col governo sulla Legge di Stabilità rappresenta la metafora di un sindacato di fatto “sotto attacco” sulla scena mediatica. La sostanza delle cose merita, invece, che si ribadiscano al riguardo le cose non ci piacciono. Quella che sembrava una manovra espansiva, tale non è.

Come è noto il pareggio di bilancio è rinviato al 2017 ed il governo quantifica in quattro miliardi e mezzo di euro il costo delle misure per rispondere alla richiesta della Ue di tagliare dello 0,3% del Pil il deficit del 2015. Insomma, la correzione finale accettata dall’Italia è di circa lo 0,4% rispetto allo 0,5% che avrebbe dovuto caratterizzare la manovra. Solo per fare degli esempi, il bonus degli 80 euro risulta come un incremento di spesa pubblica e non come una riduzione di imposte; poi, mancano gli investimenti che creano occupazione, perché in particolar modo la detassazione dell’Irap dal costo di circa cinque miliardi di euro potrebbe determinare effetti minori della suddetta cifra preventivata.

Ma soprattutto come Uilm abbiamo delle riserve: non condividiamo la tassazione maggiorata sul Tfr e quella accresciuta sui fondi pensione; non ci piacciono i tagli ai fondi per i patronati e la mancanza delle giuste risorse da destinare agli ammortizzatori sociali.

Nonostante tutto, non condividiamo, però, l’uso dello sciopero generale, perché in un confronto destinato ad essere duraturo, con ulteriori punti di profondo dissenso, le manifestazioni articolate dei lavoratori possono rivelarsi la strategia migliore.

Lo scontro politico non è proprio nelle nostre intenzioni. Noi, parafrasando Nenni, siamo per “L’emploi d’abord”, ma in pochi, allo stato dei fatti, hanno volontà di saperlo.

Antonello Di Mario

Direttore di “Fabbrica Società”

Perché la Uilm dice no alla sciopero generale

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