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È del tutto normale che il dissenso sindacale rispetto a scelte politiche o imprenditoriali si traduca in scioperi e in manifestazioni. Non lo è il fatto che, in un tempo segnato da grandi cambiamenti economici, tecnologici e organizzativi, un sindacato non aggiorni le sue analisi e le sue conoscenze e, sulla base di esse, ridefinisca i suoi obiettivi per tutelare i lavoratori nelle condizioni nuove in cui si trovano a dover operare.

Se non si può scendere dal mondo in corsa e certi fenomeni non si possono bloccare, dovrebbe essere conseguente porsi il problema di come dominarli, rivedendo regole consacrate in leggi e contratti per renderle coerenti ed efficaci rispetto alla situazione con cui si rende necessario fare i conti.

LA SCOMMESSA DELLA GERMANIA

Nel 2003 il cancelliere socialdemocratico tedesco Gerard Schröder, a fronte di una situazione economica e sociale tanto disastrata da far meritare alla Germania l’etichetta di malato d’Europa, ebbe il coraggio di adottare pesanti misure di riorganizzazione del mercato del lavoro con l’obiettivo di ridurre debito e deficit pubblici, di rilanciare il sistema produttivo e di creare nuovi posti di lavoro.

Con la riforma ideata fa Peter Hartz indebolì la contrattazione nazionale a vantaggio di quella aziendale, ampliò significativamente il ricorso al lavoro flessibile, introdusse la fattispecie dei minijobs, una forma di lavoro atipico ad orari e salari ridotti, utilizzabile soprattutto per le prestazioni a basso contenuto professionale, vincolò la fruizione dei sussidi di disoccupazione all’obbligo di accettare le opportunità di orientamento, qualificazione e occupazione proposte dai locali Centri per l’impiego.

In compenso investì nel rafforzamento del cosiddetto sistema duale (formazione già nel periodo scolastico, formazione d’ingresso e continua), ampliò la cogestione (la presenza sindacale nei consigli di sorveglianza) anche nelle medie imprese, adottò misure rigorose ed efficaci nella lotta al lavoro nero.

LE REAZIONI DEL SINDACATO

Il sindacato reagì pesantemente, ma, alla fine, negoziando tra i prezzi da pagare e gli spazi nuovi di controllo e d’iniziativa messi a disposizione, seppe prendere in mano la nuova situazione e recuperare protagonismo e rappresentatività; soprattutto reimparò a negoziare nei luoghi di lavoro. L’SPD subì una scissione e perse un alleato di governo, tant’è che alle elezioni la Cancelleria passò nelle mani della signora Merkel.

IL RISULTATO

Da quel momento la Germania è rinata economicamente e socialmente, tant’è che oggi può dettar legge all’Europa intera, ha un tasso di disoccupazione al 4% e realizza un’implementazione continua delle competenze professionali.
Il governo Renzi propone soluzioni molto meno dolorose di quelle volute da Schröder, ma è sotto tiro all’interno del suo partito, nel confronto con ampi settori del mondo politico, nell’interlocuzione con le dirigenze sindacali, in specie quelle della CGIL. Il mondo sindacale, in particolare, si attesta nella strenua difesa delle conquiste del passato, giustissime per i tempi in cui furono acquisite, ma oggi sottoposte a un processo di logoramento continuo.

GLI ERRORI DEI SINDACATI ITALIANI

Reattivo nella difesa di qualche articolo dello statuto del 1970, è assolutamente senza idee nella costruzione dei percorsi, pur vagamente tratteggiati nel cosiddetto Jobs Act, di tutela attiva della disoccupazione, nella rivendicazione di un sistema cogestionale, nella riduzione delle tante forme di lavoro precario, nel riequilibrio tra contrattazione nazionale e aziendale/territoriale, nella rivendicazione di una vera e propria rivoluzione del sistema di formazione professionale, che allo stato è un pozzo senza fondo di spreco, clientelismo e comprovata inefficacia.

La mobilitazione sindacale avrebbe dovuto focalizzarsi su una piattaforma che riempisse di contenuti le apprezzabili, ma ancora vaghe, proposte governative di assicurare tutele universali a tutte le persone dal momento del raggiungimento dell’età di lavoro e per il resto della loro vita, in un’ottica di difesa del lavoro in quanto tale e non solo del singolo posto occupato da ciascun lavoratore.

UNO SGUARDO AL PASSATO

Negli anni 60 e 70 dello scorso secolo, i sindacati parlarono con una sola voce e sostennero linee rivendicative innovative, condivise dalla stragrande maggioranza dei lavoratori; non sempre seppero gestire le loro conquiste. Oggi sembrano sempre più ripiegati su se stessi, indisponibili a ogni innovazione e rinunciatari nell’ideazione di un progetto di grande respiro che conservi i valori, rimodulandoli in funzione dei contesti diversi con cui debbono necessariamente essere coniugati.

Da questa mancanza di elaborazione e proposizione nascono i fenomeni di disaffezione sindacale che si registrano in aree sempre più estese del mondo del lavoro. Non è un caso che proliferano gli accordi aziendali in deroga a normative contrattuali e talvolta anche legali, in nome della difesa del mantenimento in vita delle aziende. E che dire dell’inerzia dinanzi a punte di assenteismo ricorrenti del 13/14% registrate tra i lavoratori del porto di Gioia Tauro, ai veri e propri atti di sabotaggio verificatisi all’Opera di Roma, al silenzio dinanzi all’imperversare di appalti e subappalti anomali nella gestione degli servizi pubblici e di taluni settori produttivi?

INCONGRUENZE

Finanche nella lotta alla precarietà del lavoro, declamata a gran voce in tutte le occasioni, si colgono incongruenze, al punto che sono proprio i sindacalisti a non sapere percepire neanche la differenza che passa tra precarietà e flessibilità del lavoro. E può addirittura accadere, come è accaduto in una grande azienda metalmeccanica del Mezzogiorno, che le RSU (Rappresentanze sindacali unitarie) non ammettano alle assemblee dei lavoratori inquadrati in organico qualche centinaio di lavoratori somministrati, costringendoli a rimanere inattivi, mentre si discute di problemi di turnazioni che, oltre tutto, li coinvolgono in pieno.

Rappresentanti dei lavoratori che discriminano tra chi ha un tipo di contratto e chi ne ha un altro non solo non si era mai visto, ma non si era neanche alla lontana immaginato. Eppure accade.

Accadrà anche che, messo in campo un pacchetto di manifestazioni a Roma e in qualche altra piazza d’Italia su obiettivi generici, l’ennesima riforma del lavoro sarà comunque promulgata, ma sarà ancora una volta costellata di norme mediate e ambigue con modesti effetti per l’economia nazionale e con vantaggi più formali che sostanziali per i lavoratori, soprattutto per quanti, e sono i più, aspirano a uscire dal cono d’ombra della disoccupazione.

Vi spiego perché le proteste della Cgil sono infruttuose

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