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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’approfondimento di Tino Oldani apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

È di ieri la notizia che la Corte dei conti ha iniziato a scoperchiare il buco nero delle 34 società partecipate della Regione Sicilia, carrozzoni mangiasoldi che, in solo quattro anni (2009 – 2012) sono costati più di un miliardo di denaro pubblico per coprire le perdite di bilancio. Nell’occasione, il presidente delle sezioni riunite del Corte, Maurizio Graffeo, ha duramente bacchettato il governo regionale, guidato da Rosario Crocetta, per l’enorme ritardo con cui sono stati forniti i dati dei bilanci societari, peraltro incompleti, sui quali dovrà fondarsi un sacrosanto repulisti. Dunque, una buona notizia.

Purtroppo, a poche ore di distanza, ne è arrivata un’altra pessima. Proprio per sottrarsi ai controlli della Corte dei conti, che negli ultimi anni hanno messo a nudo un’infinita gamma di sprechi e di spese folli dei consiglieri regionali, i vertici delle Regioni si sono riuniti a Roma per varare di comune accordo una contromossa.

Eccola: i segretari generali dei Consigli regionali, di comune accordo, hanno pensato che l’unico rimedio per mettere fuori gioco la Corte dei conti sia quello di predisporre una modifica alla legge sulle spese regionali, aggiungendovi una parolina magica: «politiche». In questo modo, le «spese legittime» di ogni consigliere non sarebbero più limitate a quelle riconducibili «all’attività istituzionale», come è stato finora, bensì «alle funzioni istituzionali e politiche». Ed è chiaro che dietro le «spese politiche» ci può stare di tutto, dalle cene con decine di invitati agli acquisti di qualsiasi strumento di propaganda politica, fino ai gadget e alle spese personali. In pratica, un salvacondotto per chi in futuro vorrà imitare, usando denaro pubblico, acquisti finora vietati, come il Suv di Franco Fiorito (Lazio), le mutande verdi di Roberto Cota (Piemonte) e i sex toys di Ulli Mair (Bolzano).

Il coordinatore dei presidenti regionali, l’umbro Eros Brega, scrive la Repubblica, sembra tra i più convinti sostenitori di una simile modifica della legge, tanto da sollecitare il premier Matteo Renzi a «prendere in seria considerazione una riorganizzazione del mondo della Corte dei conti». Noi, al contrario, facciamo il tifo perché la richiesta sia respinta al mittente, e nell’occasione Renzi confermi il progetto che gli ha attribuito pochi giorni fa il suo amico Matteo Richetti, deputato Pd: ridurre da 20 a 10 le Regioni, abolendo fin da subito quelle a statuto speciale.

La Sicilia dovrebbe essere la prima, perché solo la sua cancellazione può consentire di estirpare un malgoverno che, con la scusa dell’autonomia, dura da decenni e si rispecchia nei disastrosi bilanci delle società partecipate, di cui 22 su 34 sono in perdita. Per coprire i buchi di bilancio, come ha appurato la Corte dei conti, la Regione ha dovuto spendere 21 milioni di euro l’anno, per un totale di oltre un miliardo dal 2009 in poi. Il 40% di queste società ha chiuso in perdita per almeno tre anni consecutivi. Per molte, è stata decisa da tempo la chiusura e la liquidazione. Ma per alcune si sta verificando un incredibile paradosso: poiché hanno ancora in bilancio dei crediti verso la stessa Regione, e poiché la Regione non paga questi debiti, il risultato è che la liquidazione viene continuamente rinviata.

Risultato: la Regione deve continuare a spendere ogni anno dei soldi per mantenere aperte le liquidazioni, così che i carrozzoni da chiudere restano in vita. È il caso delle società Biosphera e Multiservizi: la prima ha un debito per il Tfr di 1,5 milioni, ma un credito di 6 milioni verso la Regione; la seconda ha debiti per il Tfr di 7 milioni, ma crediti per 18 milioni verso la Regione. Con premesse simili, nessuno è in grado di dire quando le liquidazioni potranno avere luogo. E’ già accaduto con un’altra società regionale, la Siace (società per l’industria agricola, cartaria editoriale), in liquidazione da 30 anni, ma tuttora viva e vegeta. Era il 1985 quando l’Espi, l’Ente per lo sviluppo industriale della Regione, avviò la procedura di liquidazione. Ma il liquidatore non ha ancora finito il lavoro, e il suo onorario è a carico della Regione.

La messa in liquidazione è già stata decisa per altri carrozzoni: Sicilia Turismo-Cinema Spa, su cui pendono vari contenziosi giudiziari avviati dai creditori; Lavoro Spa, gravata da “una situazione finanziaria disastrosa”, per cui non pagava l’affitto ed è stata pignorata; le Terme di Sciacca e quelle di Acireale, nelle quali la Regione ha continuato versare milioni di euro anche dopo la messa in liquidazione, con il risultato che a Sciacca il costo del personale è rimasto invariato, nonostante la riduzione del personale da 108 a 23 unità.

Non è dunque un caso se anche lo scrittore siciliano Pietrangelo Buttafuoco, nelle prime righe del suo ultimo libro (Buttanissima Sicilia; Bompiani), invochi il premier con tono disperato: «Adesso basta. Qualcuno – Matteo Renzi? – dica basta, perché l’autonomia sarà cosa santa e giusta ovunque, ma in Sicilia no, è un flagello, e trascina nel baratro l’Italia. È fonte di sprechi e burocrazia, è la fogna in cui nuota la mafia. Basta, dunque».

Benvenuti alla fiera delle nefandezze delle Regioni (che si lagnano con Renzi)

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