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Le dichiarazioni del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, sull’Ilva di Taranto secondo le quali – insieme alla vendita ad aziende private internazionali o italiane – è allo studio anche un intervento temporaneo del capitale pubblico per salvare il sito produttivo ionico, risanarlo sotto il profilo ambientale e poi rilanciarlo sul mercato, evidenziano, se pure ve ne fosse ancora bisogno, l’attenzione con cui Palazzo Chigi segue una vicenda che presenta per molteplici ragioni una sua estrema complessità.

Ma le parole del presidente del Consiglio potrebbero essere interpretate anche come un monito (severo) a chi, in Italia e a Bruxelles in sede Ue, auspica la dismissione coatta del Siderurgico di Taranto, che aprirebbe così la strada del mercato nazionale ad una ancor più larga penetrazione di prodotti provenienti da altre siderurgie del Vecchio continente.

Dicevamo dunque che la situazione ad oggi è di estrema complessità. Ricapitoliamone gli elementi:

1) l’Ilva con i suoi impianti maggiori di Taranto, Genova e Novi Ligure è tuttora una società di proprietà privata (Gruppi Riva e Amenduni), soggetta per legge a gestione commissariale per avviare le bonifiche nel sito ionico. Ad oggi tuttavia la legittima proprietà dell’azienda non solo non ha manifestato (almeno pubblicamente) la volontà di venderla, ma ha presentato ricorsi nelle sedi competenti contro alcuni dei provvedimenti che avevano portato al commissariamento e ai piani di ambientalizzazione del Siderurgico tarantino ad esso connessi;

2) l’area a caldo di questo stabilimento è tuttora sotto sequestro giudiziario con facoltà d’uso e, pertanto, non è neppure nella piena disponibilità della sua attuale proprietà e della gestione commissariale. Pertanto, chi volesse vendere o acquistare quella fabbrica potrebbe farlo in pendenza di provvedimenti giudiziari di sequestro, finalizzati alla bonifica degli impianti?

3) pendono presso il Tribunale di Taranto istanze di risarcimento danni derivanti da una ritenuta (dai ricorrenti) conseguenza diretta dell’inquinamento generato dal Siderurgico che – se e quando fossero riconosciute in sede penale e civile – comporterebbero pesantissimi risarcimenti a danno di coloro che fossero condannati quali colpevoli di quell’inquinamento. Chi eventualmente subentrasse nella proprietà della società sarebbe disponibile ad accollarsi quei risarcimenti? Presumibilmente no, e per questo è allo studio l’ipotesi di costituire una newco cui dovrebbero essere trasferiti gli asset dell’Ilva – solo quelli di Taranto? – lasciando poi ad una bad company gli eventuali risarcimenti. Ma quanto tempo occorrerebbe per periziare i beni conferibili alla nuova società di cui peraltro costituirebbero una delle voci dell’attivo dello stato patrimoniale?

4) circa le cordate interessate all’Ilva quella di Arcelor Mittal con il gruppo Marcegaglia sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) avere una maggiore solidità, anche se al momento ha presentato solo una offerta non vincolante di acquisto, e conseguentemente non ha ipotizzato alcuna cifra impiegabile per acquisire beni che – lo si ripete – sono di proprietà di chi non ha dichiarato di volerli vendere e che in parte sono sotto sequestro giudiziario. La cordata di Arvedi – cui potrebbe affiancarsi la Cassa depositi e prestiti attraverso (presumibilmente) il Fondo Strategico Italiano – avrebbe tuttavia bisogno, a nostro avviso, di essere rafforzata con una partecipazione più ampia di imprese siderurgiche italiane perché il Gruppo Arvedi – che pure ha impianti all’avanguardia – nel 2013 ha fatturato 2,1 miliardi di euro, con un margine operativo netto di 68,5 milioni, con un risultato per gli azionisti di 4,5 milioni, presentando debiti finanziari per 801 milioni e un capitale netto di 377 milioni. Pertanto per un’operazione di grandi dimensioni come quella che riguarderebbe soprattutto il sito di Taranto si renderebbero necessarie risorse rilevanti;

5) è tuttora oggetto di confronti fra addetti ai lavori il piano di risanamento dell’Ilva che in ambienti della Federacciai – ma anche in Arcelor Mittal – si ritiene troppo costoso e le cui esigenze di bonifica potrebbero essere soddisfatte con altre tecnologie, quale ad esempio quelle dell’uso negli altiforni del preridotto di ferro – che eliminerebbe le cockerie inquinanti – e che, però, per essere conveniente ha bisogno di un costo del gas necessario a produrlo molto contenuto.

Nel frattempo l’azienda – che sta producendo a ritmi ridotti – ha bisogno di liquidità per il suo esercizio corrente e le banche hanno concesso – sotto la scudo della prededuzione – solo 250 milioni al Commissario Gnudi, la seconda tranche dei quali è in via di erogazione in questi giorni.

Si è dunque in presenza di un insieme di problemi di estrema complessità per affrontare i quali bisognerà operare con accortezza sotto diversi profili, evitando inoltre possibili procedure di infrazione dell’Unione Europea per possibili aiuti di Stato.

Federico Pirro (Università di Bari – Centro Studi Confindustria Puglia)

Ecco le ipotesi per il futuro dell'Ilva dopo le parole di Renzi

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