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Il 18 luglio 2014 resterà come un macigno nella storia della amministrazione giudiziaria nazionale; e, soprattutto, in quella dell’Italia democratica, troppo a lungo denigrata ad opera di un manipolo di giudici militanti come fosse una pornocrazia, un giudizio negativo e falso che continua a pesare negativamente nella considerazione internazionale del nostro paese.

Tre giudici non alle prime armi – e neppure adusi a cercare il sostegno mediatico dei trombettieri forcaioli -, tre giudici normali, non schierati a destra, attenti all’interpretazione corretta della legge e restii ad apprezzare i teoremi della presunta «giustizia creativa» che ha profondamente scosso le fondamenta della civiltà giuridica in Italia, hanno smantellato una inchiesta grottesca e supponente della procura milanese; l’hanno rivoltata come un calzino sporco che gridava vendetta alla pulizia intellettuale, alla verità reale e a quella processuale; e, in tre ore di camera di consiglio, hanno restituito dignità e onore a un uomo che aveva avuto la disavventura di essere un presidente del consiglio sgradito all’establishment nazionale e, all’Italia, riguadagnandole una condizione di rispetto e di considerazione.

In un paese diventato melmostoso e incapace persino di ragionare con un minimo di riguardo per le persone accreditando, anche in sede accademica, letture devianti di uomini, gruppi e tendenze politiche diversificate, con il vezzo di diffamare chi non s’accodi ad un conformismo giustizialista tutto prono alla corporazione ultracon¬servatrice e autoritaria dei giudici militanti a sinistra (ma reazionari nell’indole e nei comportamenti), è giusto segnalare i nomi dei tre giudici della Corte d’Appello di Milano: che non hanno avuto timori reverenziali verso le dominanti correnti politicizzate dei loro organismi di rappresentanza. Eccoli, quei nomi di giudici che il cittadino equilibrato vorrebbe trovassero imitatori in tutti i tribunali d’Italia: Enrico Tranfa, Concetta Lo Curto e Alberto Puccinelli. È loro il merito di avere fatto piazza pulita di una giustizia pregiudizialista, manettara, estremista (commista di giacobinismo di sinistra e di talebanismo di destra) e di avere ricominciato a rivalutare la giustizia giusta: con riverberi positivi – e persino salvifici – nell’opinione pubblica, essendo la popolarità della magistratura negli ultimi anni precipitata al di sotto del 10 per cento nella valutazione di sondaggi obbiettivi.

Un giornale di sinistra seria e non chiassaiola, Il Garantista di Piero Sansonetti, ha commentato con un titolo oggettivo – Cambia tutto – la storica sentenza del 18 luglio. Solo che quel titolo appare più come un auspicio che come l’avvio di una stagione di riforme comprendente anche quella della giustizia e col consenso maggio-ritario dei circa 9 mila magistrati italiani. Ciò in quanto la magistratura d’oggi ha due formidabili nemici (non avversari). Il primo è interno a se stessa; ed è costituito da quelle pattuglie, in gran parte pm disseminati qua e là nella penisola, che per metodi inquisitori, carrierismo familista, dissociazione totale dalla realtà sociale e da uno Stato con regole scritte da politici e interpretate da pm piuttosto ad libitum che secondo la ratio delle norme, nonché per essere posseduta da presunzione di onnipotenza, fanno rimpiangere l’amministrazione giudiziaria del borbonico Ferdinando II di Napoli. L’altro nemico, esterno, è formato da quello scomposto, intrigante, autoritario e mai autorevole partito giustizialista (prevalentemente di sinistra, ma anche di destra, e comunque sempre reazionario) che fa un uso improprio della giustizia per sopraffare gli avversari: per via giudiziaria e non secondo le regole di una democrazia equilibrata nei poteri, nelle istituzioni e nei diritti e doveri civici, nel rispetto del pluralismo delle opinioni. Il matrimonio costante, almeno da cinque lustri, fra il nemico interno e quello esterno alla magistratura ha impedito all’Italia di riformare il proprio ordinamento giudiziario, che l’Europa ci contesta e ci sanziona in nome della civiltà del diritto.

Perché tutto cambi, e non gattopardescamente, occorrerebbe, come qualcuno riprende a suggerire, affermare il primato della politica. Solo che sono in troppi, nelle nostre contrade, gli azzeccarbugli che hanno in uggia il primato delle forze politiche nel loro complesso, così concorrendo all’ulteriore degrado e della politica, e delle istituzioni, e della giustizia. L’assenza di politica – cioè di proposte diversificate e di dialogo fra diversi, rifiutando l’uniformità ed esaltando la reciproca comprensione e legittimazione – blocca i processi riformatori. Al punto da non essere in grado – come nel caso specifico della giustizia – neppure di fissare un’agenda del fare, dovendo l’esecutivo e il legislativo essere costretti a sottostare all’autoritarismo incontinente di quei due nemici associati della magistratura cui accennavo prima. I quali conservano il vecchio che non va e non funziona pur di non ammettere che le insidie ad una libera democrazia moderna provengono proprio da loro: antirot¬tamatori in quanto irriducibili assolutisti.

Berlusconi, Galan e il primato (che non c'è) della politica

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