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L’esercito israeliano ha annunciato nella notte tra lunedì e martedì l’ingresso dei carri armati a Gaza City, con l’obiettivo dichiarato di smantellare Hamas in quella che viene considerata l’ultima roccaforte dell’organizzazione. L’operazione, osteggiata dai vertici della sicurezza israeliana per i rischi sugli ostaggi e sulle perdite militari, è stata lanciata poche ore dopo la visita a Gerusalemme del segretario di Stato americano Marco Rubio. L’amministrazione Trump ha ribadito il sostegno a Israele, pur chiedendo che l’operazione — redde rationem della campagna militare che dura da due anni, dopo che Hamas ha aperto le ostilità con l’attacco del 7 ottobre 2023 — sia rapida.

La risposta araba da Doha

Poche ore prima, nella capitale qatariota si era riunito il summit straordinario della Lega Araba e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, convocato dopo il raid israeliano che ha colpito Doha la settimana scorsa. Secondo indiscrezioni pubblicate da Axios, il bombardamento — che intendeva colpire parte della leadership del gruppo palestinese mentre si riuniva per discutere una proposta negoziale avanzata dagli Usa — era stata anticipata dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a Donald Trump, che ha avallato il raid nel Paese alleato statunitense.

L’emiro qatarino Tamim al Thani ha accusato Netanyahu di “illusioni pericolose di dominio regionale”, richiamando l’Iniziativa di Pace Araba del 2002. Le misure adottate potrebbero in futuro anche andare oltre la condanna simbolica, con l’ipotesi di sanzioni economiche, limitazioni diplomatiche e chiusura di spazi aerei. Per ora, anche tramite la mediazione indiretta statunitense, si è scelto di evitare decisioni che potessero innescare terremoti diplomatici — anche perché alcuni dei grandi player della regione, su tutti gli Emirati e l’Egitto, sono in una situazione di normalità delle relazioni con Israele.

Netanyahu alza il tiro: accuse a Qatar e Cina

Sempre lunedì, parlando a Gerusalemme davanti a parlamentari americani in visita, Netanyahu ha però alzato l’asticella dello scontro e accusato per la prima volta apertamente la Cina di guidare, con il Qatar, una campagna globale per delegittimare Israele, soprattutto negli Stati Uniti. Ha denunciato l’uso dei social media, in particolare TikTok, come strumento di disinformazione che alimenta sentimenti anti-israeliani tra i giovani.

Colpisce l’assenza di qualsiasi riferimento alla Russia, tradizionalmente tra i principali sponsor di campagne anti-israeliane (e sommessamente antisemite), anche come parte delle misure attive contro l’Occidente. Una scelta interpretata come volontà di evitare nuove frizioni con Mosca, ma anche per accomunare Doha a Pechino, ossia al rivale strategico prioritario per gli Stati Uniti.

Analisi: un triangolo di crisi

Le tre linee di tensione – l’offensiva a Gaza, il vertice di Doha, e le accuse a Qatar e Cina – delineano lo stesso scenario: Israele spinge per una vittoria militare totale, mentre cresce la mobilitazione araba e islamica e si allargano le fratture diplomatiche. L’inclusione della Cina nel discorso di Netanyahu segna un salto qualitativo, perché apre un fronte retorico con una potenza globale in un momento in cui Israele ha bisogno del massimo sostegno occidentale.

Per Washington la sfida si fa via via più complessa: contenere Netanyahu, preservare il lavoro comune con Doha e gestire le ricadute di un conflitto che ora si intreccia definitivamente con la competizione strategica globale.

Dopo il vertice di Doha, Netanyahu tenta il tutto per tutto a Gaza City

La guerra a Gaza ha vissuto nelle ultime ventiquattr’ore una duplice escalation: sul terreno, con l’avvio dell’offensiva israeliana su Gaza City, e sul piano politico-diplomatico, con il vertice straordinario arabo-islamico a Doha e con le inedite accuse del premier Benjamin Netanyahu a Qatar e Cina

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