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E’ una lunga striscia di asfalto che raccorda e racconta i luoghi essenziali dell’Italia. E che ha diramato altre strisce, verso altre città, altri paesaggi. E’ l’Autostrada del Sole, che già dal nome evoca un’idea di luce, di futuro, di progresso, della smania di vivere di una popolazione che voleva dimenticare rapidamente le macerie della guerra e proiettarsi verso la velocità, lo spostamento, il consumo.

Otto anni appena servirono per la sua costruzione, dal 1958 al 1964, quando, curiosa coincidenza, ci fu anche il picco dell’indice di natalità. Brevi autostrade già erano state costruite negli anni del regime fascista: la Napoli-Pompei, la Milano-Laghi. Piccole opere pensate più nell’ottica della gita domenicale fuori porta per gerarchi e borghesi. L’Autostrada del Sole no. Con i suoi quasi 800 km è la strada di un paese che è proiettato, prima che allo svago, alla produzione. C’è bisogno di velocità per trasportare le merci, innalzare i consumi, abbassare i prezzi, diffondere benessere. Due giorni, pause escluse, servono per andare da Milano a Napoli a fine anni Cinquanta. Con l’autostrada, quel percorso si compie in dieci ore. Un processo virtuoso che innesca a catena ulteriore ricchezza.

Ai bordi dell’autostrada aree un tempo depresse diventano industriali. Ancora oggi, basta voltare lo sguardo dal finestrino a Piacenza, Frosinone, Caserta per vedere quante fabbriche sorgono a pochi metri dai caselli. Un’opera coraggiosa, l’Autosole, con il suo tracciato appenninico in alta quota, costato decine di vite umane: un percorso avveniristico per il traffico di quegli anni che, a fatica, tra mille pastoie burocratiche, si sta adesso ammodernando. E proprio i lavori contemporanei sono la cartina di tornasole di un atteggiamento diverso che la politica e la società hanno verso le infrastrutture. Diffidenza contro fiducia. Disgregazioni contro sinergie. Rallentamenti contro velocità. Politici come Fanfani più volte batterono i pugni sul tavolo affinché si facesse presto a completare l’autostrada, perché lo sviluppo e la frenesia dell’Italia non potevano più attendere. Con nuove professioni che nascevano lungo quei chilometri: il poliziotto della stradale, il casellante, l’addetto al soccorso stradale, i baristi degli autogrill.

Oggi, cinquant’anni dopo, un paese completamente diverso continua a percorrere l’autostrada del Sole e tutte quelle costruite negli anni seguenti. Certo, i treni a velocità hanno ridotto la necessità dell’automobile per gli spostamenti rapidi di professionisti e turisti di città d’arte. Ma una adeguata rete autostradale resta un’esigenza imprescindibile per il trasporto delle merci, il turismo delle famiglie, i viaggi che non toccano i centri delle città.

Resiste un deficit infrastrutturale a macchia di leopardo: la Civitavecchia-Livorno, la litoranea da Venezia a Rimini, la Jonica, la Fano-Grosseto, la Orte-Cesena, la Pedemontana lombarda, alcuni nodi nella pianura veneta. Strozzature che rallentano la produttività dell’Italia, paludi in cui ogni anno si consumano, nelle code, milioni di ore di lavoro. Ritrovare lo spirito decisionale dei costruttori dell’Autosole, il coraggio di sfidare le convenzioni (molti erano contrari alla progettazione delle rampe di svincolo, preferendo le più economiche ma pericolose intersezioni a raso), la capacità di imprimere qualcosa che resti nelle generazioni a venire: impegni che ogni classe politica che abbia a cuore la bellezza e lo sviluppo dell’Italia dovrebbe tenere a mente. Cercando, magari, grazie alla tecnologia contemporanea, di costruire un’autostrada in meno di otto anni. I record si battono, non si ammirano.

Amarcord, come era bella l’autostrada del sole

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