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Si è soliti dire che non c’è due senza tre. E almeno per questa volta, dopo il responso di Moody’s, che ha confermato la relativa stabilità finanziaria italiana, così è stato. Nonostante che Cgil e Uil, con il loro scombinato sciopero mezzo generale, abbiano fatto di tutto per accrescere la confusione. Eppure la data del 17 Novembre, cui legare gran parte delle sorti del debito pubblico italiano, era nota da sempre. Semplice negligenza o qualcosa di più grave? Comunque sia: scampato pericolo. Il verdetto è più che positivo, visto che migliora di un knot (Baa3 da negativo a stabile) quello precedente, allineandosi così alle valutazioni delle altre agenzie di rating.

Per il resto c’è poco da ridere. Quando le risorse sono poche a causa delle follie di un recente passato – reddito di cittadinanza per un verso, bonus per 130 miliardi di euro per l’altro – resta ben poco da fare. C’è solo da sperare nel Pnrr: in quelle risorse che la Commissione europea ha messo a disposizione dell’Italia. E che l’Italia dovrebbe dimostrare di saper spendere, respingendo l’invito di chi avrebbe voluto contenere fin dall’inizio la richiesta. Dando per scontata l’ipotesi di un inevitabile fallimento. Malaugurata eventualità che avrebbe segnato un punto di non ritorno.

Detto questo, si poteva fare meglio? Certamente si, come lascia presagire l’avvio del dibattito parlamentare. Ma si tratterà comunque di variazioni al margine: tanto si toglie, tanto si aggiunge. Si vedrà, quindi, in cosa consisterà la contro-manovra di Elly Schlein. Se dal cilindro del prestigiatore uscirà il coniglio, o se tutto si risolverà in uno dei tanti sogni di mezza estate, ai quali la politica ci ha da tempo abituati. Nell’attesa, meglio rimanere con i piedi per terra e misurarsi con le difficoltà prospettiche dell’economia italiana in un orizzonte internazionale decisamente nero.

Queste valutazioni spiegano, in larga misura, l’indulgenza della Corte. Nei tre verdetti, che si sono succeduti con una scadenza quasi settimanale – Standard & Poor’s, Fitch ed ora Moody’s – domina la preoccupazione per gli assetti più generali. La morsa della guerra lungo il confine est dell’Europa – Ucraina – e quello a Sud, tra Israele e le varie formazioni terroristiche che ne circondano il territorio: Hamas, Hezbollah, Jihad Islamica, varie milizie irachene e siriane, nonché gli Houthi, nello Yemen. Tutti militanti foraggiati dall’Iran. Cosa che inquieta enormemente.

Ci sono poi tutte le incertezze dell’economia mondiale, segnata dal passaggio dalla slowbalisation (deglobalizzazione) alla frammentazione. Con i Paesi totalitari (soprattutto Russia e Cina) che cercano di egemonizzare, in chiave anti-occidentale, il Sud globale. Questa frattura, tutta politica, ha sconvolto le precedenti catene globale del valore, frenato gli scambi internazionali, consolidato le posizioni oligopoliste nel settore dei materiali strategici ai fini dello sviluppo e nel campo delle produzioni alimentari. Il clima di incertezza, che ne è derivato, ha ridotto al minimo la cooperazione internazionale e frenato gli investimenti. Mentre un’inflazione perniciosa, per fortuna oggi meno aggressiva, legittimava una politica monetaria, tutt’altro che convincente, in grado di gelare ogni residua “voglia di fare”.

Troppa indulgenza, nell’ attribuire ad altri colpe che sono soprattutto italiane? Le ultime previsioni della Commissione europea possono contribuire alla formulazione di un giudizio equilibrato, secondo un’interpretazione che diverge da quella appena fornita dal Foglio, con il commento di Luciano Capone. Rilevante è solo il confronto per il prossimo anno. I dati relativi al 2025, secondo la metodica della Commissione, più che previsioni, sono un monito. Troppi gli elementi di incertezza a causa delle grandi incognite legate all’evoluzione internazionale. Dall’inizio dell’anno il prezzo del petrolio (Brent) è variato di circa il 40 per cento, sconvolgendo ogni precedente previsione.

Nel 2024 la crescita italiana sarà minore di quella indicata nella Nadef, ma già corretta dalle ultime dichiarazioni del ministro dell’Economia. Sarà anche minore della media europea (0,9 contro l’1,2 per cento). Ma comunque uguale a quella della Francia e migliore di quella tedesca (0,8). Segno evidente di un malessere comune alle principali economie dell’Eurozona. Per l’Italia andrà leggermente meglio, considerando il reddito pro-capite. Ma solo a causa di un più preoccupante decremento demografico.

All’origine di risultati, non certo brillanti, la forte compressione della domanda interna. La spesa pubblica cresce meno rispetto a quella degli altri Paesi dell’eurozona. Come pure gli investimenti, che hanno tuttavia un andamento divergente. Sopra la media quelli pubblici e quelli nei beni strumentali. In forte caduta quelli nelle costruzioni, dopo la bolla originata dai provvedimenti sui vari bonus. Soprattutto la regina del 110 per cento. Il traino maggiore per l’economia italiana resta, quindi, l’estero. Dopo un 2022 da dimenticare, il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti torna ad essere positivo. Intorno all’1 per cento del Pil.

La Francia, al contrario, continua ad accumulare forti perdite, dell’ordine del 2,4 per cento del Pil. Mentre resta elevato (intorno al 6 per cento del Pil), nonostante la crisi congiunturale cinese, quello tedesco. Sorprendenti infine i progressi della Spagna (oltre 1,5 per cento del Pil). Si deve solo aggiungere che il contributo maggiore, sia in positivo che in negativo, in tutti i casi citati, è dato dalla bilancia commerciale. Il cui valore, al di là di qualsiasi sofisticazione statistica, esprime il grado di competitività internazionale delle singole economie.

Gli altri elementi del quadro macroeconomico sono coerenti con le impostazioni di base appena indicate. In Italia i prezzi dei generi di consumo dovrebbero aumentare a un tasso più contenuto (2,5 contro una media del 3). La disoccupazione dovrebbe diminuire maggiormente, con un differenziale dello 0,2 per cento. Mentre il salario reale pro-capite dovrebbe aumentare di un’identica percentuale. Ancora troppo poco rispetto alla media dei salari europei. Me qui entra in gioco, la grande bestia nera dei sindacati. Vale a dire una produttività media del lavoro, soprattutto nel terziario, da tempo disallineata rispetto ai restanti valori europei.

Infine il quadro di finanza pubblica: il grande buco nero della situazione italiana. In termini di debito pubblico/Pil le distanze sono destinate ad aumentare. Come detto più volte, non è tanto il rischio di inesistente pericolo di default a preoccupare. La conferma di Moody’s ne è la contro prova. Quanto la spesa per interessi, che sottrae risorse per un loro uso più produttivo o socialmente più desiderabile. Nel 2024 l’Italia spenderà l’1,6 per cento del Pil in più rispetto alla media degli altri partner europei. Oltre 33 miliardi di euro. Decisamente troppo.

Il giudizio di Moody’s castiga gufi e apocalittici, ma... Il commento di Polillo

Il verdetto è più che positivo, ma per il resto c’è poco da ridere. Quando le risorse sono poche a causa delle follie di un recente passato resta ben poco da fare. C’è solo da sperare nel Pnrr: in quelle risorse che la Commissione europea ha messo a disposizione dell’Italia. E che l’Italia dovrebbe dimostrare di saper spendere. Il commento di Gianfranco Polillo

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