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Non sarà facile per Mario Draghi, proprio in questi giorni chiamato in causa da un articolo del Financial Times, adempiere all’impegno preso nei confronti di Ursula von der Leyen. Individuare la strategia migliore per restringere il gap competitivo dell’Europa nei confronti dei principali player del mondo: Stati Uniti da un lato, Cina dall’altro. E non perché l’ex Bce non abbia sull’argomento idee chiare. Ma perché ciò che sarebbe necessario fare si scontra contro bardature burocratiche ossificate e con il peso di interessi consolidati, che non sarà facile superare.

Eppure la sfida non va abbandonata. Nell’interesse dell’Europa, certamente. Ma soprattutto dell’Italia, chiamata, in prima persona, al capezzale del grande malato per indicare una possibile via di fuga, da un destino altrimenti segnato. E chiamata con due protagonisti. Mario Draghi da un lato, Enrico Letta dall’altro. Quest’ultimo incaricato di fornire una radiografia del modo di funzionare del mercato interno. Alla quale sta lavorando con un approccio bottom-up. Un tour delle capitali europee, ha detto, per “uscire dalla bolla di Bruxelles e ascoltare le preoccupazioni sul campo”.

Ma perché due italiani? Domanda tutt’altro che peregrina. Perché finora in Europa i singoli Stati hanno proceduto per loro conto. Una sorta di “tana libera tutti” per quanto riguardava gli “aiuti di Stato”, in passato proibiti dai Trattati. Ma di fatto una misura destinata a favorire i Paesi più forti dell’Eurozona, portatori di un vantaggio fiscale in grado di essere utilizzato per intervenire a favore delle proprie industrie nazionali. E così Germania e Francia hanno fatto la parte del leone.

Secondo i dati del Financial Times, la spesa per gli aiuti di Stato dell’Ue è aumentata da 102,8 miliardi di euro nel 2015 a 334,54 miliardi di euro nel 2021. Tra marzo 2022 e agosto di quest’anno, l’Europa ha approvato 733 miliardi di euro di sostegno statale. Di cui il 50 per cento “Made in Germany”. E subito a ruota la Francia. Si spiega allora il forte coinvolgimento dell’Italia, anche a prescindere dalla caratura e dal prestigio dei suoi due rappresentanti. L’Italia è il secondo Paese industriale dell’euro zona. Le sue risorse finanziarie, tuttavia, (lo si è visto in quest’ultima manovra finanziaria) non sono tali da garantire un intervento paragonabile a quello tedesco o francese. Può quindi svolgere un ruolo di mediazione tra le economie più ricche e quelle meno dotate.

Sarà un lavoro delicato, tanto più che, sullo sfondo, pesa la figura massiccia dell’economia americana. In un confronto sempre più impietoso. L’economia dell’Ue, in termini di dollari, ricorda sempre FT, rappresenta il 65% dell’economia statunitense. Si tratta di una percentuale in calo rispetto al 91% del 2013. Il prodotto interno lordo pro capite degli Stati Uniti è più del doppio di quello dell’UE e il divario è in aumento. Il ritardo maggiore si riscontra proprio lungo la frontiera tecnologica: completa assenza tra le majors, marginalità nella produzione di semiconduttori, minore appeal delle sue Università, energia. E via dicendo.

Lo sviluppo del mercato unico che, per la verità ha contribuito molto a sprovincializzare una produzione fin troppo domestica, sta tuttavia perdendo la sfida rispetto alle altre grandi aree del mondo. Sfida che i cambiamenti negli equilibri geopolitici del Pianeta rende, al tempo stesso, più urgente e difficile. Gli Stati Uniti, preoccupati soprattutto dei successi cinesi, sono partiti in anticipo con “l’Inflation Reduction Act (IRA)” con 369 miliardi di dollari che mira a dare un sostegno statale di lunga data alle imprese più esposte alla concorrenza internazionale. Una cifra, in apparenza non dissimile dagli stanziamenti europei (334,5 miliardi di euro), se non fosse per la coda del diavolo che si nasconde nei dettagli.

La sola popolazione europea è composta da 450 milioni di persone, contro i 332 milioni di americani. Una differenza che pesa sulle dimensioni ottimali delle singole imprese. Che, invece, a differenza di quelle poste al di là dell’Atlantico, sono molto meno integrate, è molto meno cooperative. Abissali le differenze in tema di energia. Con gli Usa che, nello spazio di pochi anni, grazie allo shale oil, si sono trasformati da importatori in uno dei principali esportatori di prodotti energetici. Il diverso volume di fuoco messo in campo dall’Amministrazione di Joe Biden rischia, pertanto, di alimentare uno vero e proprio shock: spingendo le industrie europee a trasferirsi colà per godere dei maggiori vantaggi fiscali. In un contesto sempre meno rassicurante.

Il pericolo è tutt’altro che teorico, come mostra un recente paper del Fondo monetario internazionale: Geoeconomic fragmentation Threatens Food security and clean energy transition. L’epidemia di Covid prima; l’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina, poi, ed infine la risposta di Israele agli atti terroristici di Hamas, hanno sconvolto un precedente equilibrio. Distrutto le le vecchie catene del valore, determinando una frammentazione degli scambi internazionali in settori chiave dell’economia mondiale: agricoltura, minerali ed energia.
Si calcola che nei minerali, il 70 per cento della produzione mondiale dipenda solo da tre Paesi.

Ancora più forte la concentrazione in settori strategici, ai fini della transizione energetica, come nel caso del rame, del nichel, del cobalto o del litio. Una faglia così netta, se non mitigata da una ripresa della cooperazione multilaterale, non può che portare ad un forte aumento dei prezzi relativi. Destinato a penalizzare soprattutto i Paesi più deboli del Pianeta. O coloro che non fanno parte degli schieramenti politici in cui militano i Paesi produttori. C’è quindi il rischio concreto che logiche di pura potenza si sostituiscono alla normale attività commerciale.
Di fronte ad uno scenario così poco rassicurante, l’Europa dovrebbe accelerare.

Distinguere, come aveva proposto Mario Draghi, nel suo discorso di Cambridge dello scorso luglio, scelte che possono essere gestite solo a livello sovranazionale e quanto, invece, lasciare all’autonoma determinazione dei singoli Stati. Da un lato una maggiore centralizzazione del potere, nei settori strategici soprattutto ai fini della sopravvivenza; dall’altra la maggiore libertà dei singoli Stati, seppure nel rispetto di regole comuni. Una sorta di “momento Hamiltoniano”, come avvenne negli Stati Uniti alla fine della loro guerra di indipendenza. E che oggi si ripropone di fronte alle minacce di un mondo sempre più inquieto ed ostile nei confronti di tutto l’Occidente.

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Individuare la strategia migliore per restringere il gap competitivo dell’Europa nei confronti dei principali player del mondo, Stati Uniti da un lato, Cina dall’altro, non sarà un passeggiata. E non perché l’ex Bce non abbia sull’argomento idee chiare. Ma perché ciò che sarebbe necessario fare si scontra contro bardature burocratiche ossificate e con il peso di interessi consolidati, che non sarà facile superare

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