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L’anno delle elezioni è cominciato domenica, in Bangladesh – prima di scrollare le spalle con tipica sufficienza euro-occidentale: popolazione tre volte l’Italia. Peccato che bassissima affluenza e boicottaggio dell’opposizione inficino il quinto mandato ottenuto dalla dama di ferro, Sheikh Hasina, la donna che pur aveva guidato il ritorno del Paese alla democrazia dopo la dittatura militare che nel 1975 aveva massacrato il padre e una ventina di membri della sua famiglia. E sì che in passato Hasina aveva intervallato potere e opposizione, prassi sconosciuta nella quasi altrettanto popolosa Russia dove, da un quarto di secolo, si va alle urne solo per legittimare mai per avvicendare.

Fatta eccezione per il numero di abitanti, Bangladesh e Russia hanno ben poche caratteristiche in comune. Ma sono fra i primi dei 76 Paesi dove quest’anno vota circa una metà della popolazione mondiale, compresa la massima potenza (Stati Uniti), il Paese più popoloso (India), il più antico regime parlamentare (Regno Unito) e l’intera Unione europea. Trionfo mondiale della democrazia, dunque? Fino a un certo punto, se il ricambio passa di moda e le opposizioni trovano di fatto la strada sbarrata. Le consultazioni elettorali “manovrate”, a cominciare dal voto russo del 15-17 marzo, appena preceduto dal compagno di viaggio bielorusso (25 febbraio), servono semplicemente a legittimare l’esercizio di un potere autocratico o teocratico (Iran, 1° marzo). Ma molte altre, e non solo in Occidente, mostrano invece che la democrazia è viva e vegeta quand’anche imperfetta e sotto attacco di pulsioni autoritarie e nazionaliste. E può riservare prime volte: in Messico dove si fronteggiano due donne; in Sud Africa dove l’Anc potrebbe perdere la maggioranza assoluta.

La maggior parte delle elezioni in calendario quest’anno va pertanto guardata con fiducia e ottimismo, sia che conducano a un fisiologico avvicendamento sia che si risolvano in continuità di governo – il secondo caso, ovviamente, presenta un a gamma di livelli quanto ad effettiva “democraticità” del voto. Lo scrutinio internazionale volto ad accertare che le elezioni siano free and fair si risolve per lo più in verdetti espressi in tonalità di grigio, piuttosto che in bianco o nero. Né vanno drammatizzate le conseguenze sulla scena mondiale. La regola di bazzica è che cambiano i governi ma non le coordinate fondamentali di politica estera, col corollario che i cambi di governo non cambiano le relazioni internazionali. L’alternarsi di amministrazioni democratiche e repubblicane a Washington ha scalfito solo marginalmente la politica americana durante e dopo la guerra fredda. Fino ad adesso.

Cosa c’è di diverso nel 2024? La regola viene infranta se il voto rompe non tanto equilibri interni di potere quanto lo status quo internazionale (o entrambi) vuoi per le ripercussioni esterne vuoi perché esprime un radicale ripensamento dei fondamentali di politica estera. Il voto di Taipei rientra nella prima categoria; quello americano di novembre e, in misura minore, quello europeo di giugno nella seconda. Le prossime (13 gennaio) elezioni a Taiwan preoccupano più la Cina che i taiwanesi, abituati alla democrazia. Una vittoria del candidato indipendentista, William Ching-te Lai in testa nei sondaggi, sarebbe letta a Pechino come un ripudio della “inevitabilità storica” della riunificazione appena proclamata da Xi Jinping. Come risponderà la Cina? E come risponderanno gli americani alla risposta cinese? Se Lai vincerà, lo scopriremo presto.

Una vittoria di Donald Trump alle presidenziali del 5 novembre implicherebbe un ritorno di America first in grande stile. La sostanziale continuità della politica estera americana, faticosamente sopravvissuta alla sua prima amministrazione, sarebbe travolta da un cocktail di nazionalismo economico e isolazionismo politico, senza più freni inibitori e alimentato da un senso di rivincita nei confronti di quei leader – molti europei e occidentali – che avevano accolto con malcelato sollievo il cambio della guardia a Washington nel 2016.

Anche senza tentare qui un’analisi approfondita, è chiaro che la rielezione di Trump implica un cambiamento di rotta americano nelle relazioni internazionali. Una prima volta (2016) poteva essere considerato accidentale; una seconda diventerebbe strutturale. La Nato, come osservava Marta Dassù su Repubblica, potrebbe ben sopravvivere ma cambierebbe inesorabilmente la natura dei rapporti politici e di sicurezza dell’Europa con l’America. Di un’Europa che, nel frattempo, potrebbe essere alle prese con sé stessa ove il voto nell’Ue desse fiato alle forze che, dall’interno, remano sia contro le istituzioni comunitarie sia contro le scelte di fondo dell’Unione, dall’Ucraina alla transizione energetica. Tra le urne europee di giugno e quelle americane di novembre l’asse atlantico l’asse atlantico dell’Occidente è pertanto a rischio di una doppia incrinatura.

I rischi alle nostre democrazie potranno anche essere alimentati da ingerenze e disinformazione esterne – da parte di Russia e Cina per intenderci. Pro domo sua più che per ideologia. Ma sono soprattutto endogeni. E non sono una novità del XXI secolo. Solo un breve passo separa il populismo dall’autocrazia (o dittatura, che Trump non sembra disdegnare), come spiega Polibio nelle Storie. Scritte un paio di millenni fa. L’eterna sfida alla democrazia si rinnova quest’anno su scala planetaria.

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