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Nelle cronache del caso Mose è interessante notare come ai mille approfondimenti sulle ville di Giancarlo Galan, sulla diabolicità della sua segretaria, agli imbarazzi per l’arresto di una personalità di sistema come Giorgio Orsoni si accompagni anche, da parte dei media più rilevanti, un certo silenzio sull’arresto di Roberto Meneguzzo, cervello della potente finanziaria Palladio.

Si comprende la reticenza del grande giornale del Nord che banche anche più potenti della società vicentina ce le ha in consiglio di amministrazione, così come è ragionevole che il quotidianone romano che fa parte del gruppo socio di istituti di credito e assicurazioni, sia ugualmente riservato. Comunque un certo silenzio fa impressione e sottolinea una qualche anomalia del caso veneto.

A Milano nelle vicende di Filippo Penati si applicò quella che è apparsa a lungo la condotta preferita della pubblica accusa: evitare di tirare di mezzo le grandi banche che per esempio avevano guidato l’allora presidente della Provincia di Milano sia nel gestire la Serravalle sia le famose aree di Sesto San Giovanni poi finite sotto inchiesta.

Se si dà anche una sommaria occhiata alle cronache giudiziarie di questi ultimi tempi dal caso Monte dei Paschi a quello Carige, sino all’inaudita perquisizione di uffici di Giovanni Bazoli per vicende legate all’Ubi e ora alla potente Palladio l’irruenza dei pm verso rilevantissime istituzioni finanziarie appare in qualche modo innovativa.

Certo si ricordano le vicende della Popolare di Lodi ma quell’episodio faceva parte di uno scontro duro che aveva come posta la normalizzazione di Banca d’Italia e la proprietà del Corriere della Sera. Più recentemente attacchi alla grande finanza sono stati sferrati quando gli inquisiti erano già largamente sconfitti così con Cesare Geronzi, così con la Popolare di Milano o con i Ligresti.

Ora invece ci troviamo di fronte a quello che in qualche misura può apparire un salto di qualità; né Bazoli né la Palladio per quanto molto indeboliti paiono già del tutto sconfitti. In qualche misura lo era forse il Monte dei Paschi, entrato in una crisi evidente prima di essere sottoposto all’attacco giudiziario. Mentre è controversa la vicenda della Carige. In quest’ultima vicenda è interessante notare come (probabilmente per caso) l’attacco all’istituto genovese avvenga contemporaneamente a un duro colpo subito da due suoi protettori politici come Claudio Scajola e Luigi Grillo.

Naturalmente contano le libertà di iniziativa dei singoli pm, conta l’indebolimento generale che la finanza ha subito nel nostro Paese. Non sottovaluterei però anche gli equilibri di potere più generali: lo spostarsi lento ma forse definitivo di compiti di vigilanza da Roma a Francoforte, l’intervento più deciso della finanza americana innanzi tutto sub specie Black Rock, la richiesta di grandi player globali di avere proprio teste di ponte  in un eventuale mercato unico transatlantico (la vera partita oggi in corso).

Sappiamo come è fatto il potere italiano (di cui le procure sono una delle espressioni più rilevanti) feudale e corporativo nelle forme con tratti che possono apparire quasi anarchici ma proprio per questo subalterno ad assetti di potere che garantiscano sistemicamente queste sue caratteristiche.

Osserviamo poi che mentre i casi di corruzione legati all’Expo sono espressione di una sorta di Sfigatopoli, con personalità politiche logorate che si sono intrufolate per rubare qualche segreto e lucrare qualche (lauta) mancia da imprese emarginate dagli equilibri tra le forze che contavano, il caso Mose è invece un esempio di corruzione sistemica, una sorta di riedizione di un’Iri fase della decadenza che per operare deve cooptare i terminali politici (peraltro un sistema invertito rispetto a quello della Prima repubblica: in cui i politici sono “dipendenti” dell’economia non cogestori).

Al di là delle responsabilità penali di cui si occuperanno i tribunali, vi sono quelle politiche evidenti: di Romano Prodi e Paolo Costa nell’aiutare a costruire un “sistema” di tipo Iri in una situazione del tutto diversa, del chiacchierare senza costrutto di Massimo Cacciari (l’ultimo suo mandato da sindaco è stato indecente) che quasi obbligava a prendere la via della corruzione per poter fare qualcosa, di Galan che ha scelto la via del consociativismo regalando Venezia alla sinistra per non essere disturbato nella gestione del suo potere. Dell’establishment della Serenissima che ha scelto un uomo quasi di destra per una giunta che aveva dentro anche i centri sociali.

Si discute ora di nuove norme e di nuovi comportamenti per gli appalti: benissimo! Così come sull’esclusione dalla vita politica dei corrotti. Però è solo l’aria fresca di un regolato conflitto politico e di mercato che alla fine rimuove le radici dei più diffusi fattori di corruzione. Non si risolve niente senza una dialettica tra esecutivi e assemblee consigliari negli enti territoriali definendo responsabilità e poteri di auditing, senza un sistema definito chiaramente di decentramento o di federalismo dello Stato, senza una distinzione tra giudici e pubblici ministeri con questi ultimi costretti a giustificare le proprie scelte politiche (per esempio la lunga disattenzione all’attività centrale di certi centri finanziari).

E naturalmente non sarebbe male mentre si cerca di riorganizzare lo Stato cambiando una costituzione che non regge più nella sua parte ordinamentale, che non si lasciasse colonizzare dopo la nostra sovranità politica anche quella (residua) finanziaria.

Mose, Expo e Carige, novità e mire dei magistrati

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