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È bastato che Matteo Renzi, entrato con baldanza a Palazzo Chigi, scoprisse – come accadde a Pietro Nenni nel dicembre 1963 – che in quel sito non c’è alcuna stanza dei bottoni del potere italiano, e perciò invocasse almeno il diritto, del presidente del consiglio, a revocare la nomina a ministri rivelatisi incapaci, fannulloni o pasticcioni, che s’alzassero gli alti lai del club dei Cerberi che s’arrogano la gelosa ed esclusiva custodia della «costituzione più bella del mondo», accusando il meschino fiorentino di voler instaurare una democrazia autoritaria retta sul binomio Renzi-Berlusconi.

Dunque è sufficiente avanzare qualche timida proposta di riforma funzionale ad uno Stato più efficiente, meno burocratico, dove possa esistere un minimo di democrazia decidente concedendo al premier quei poteri di nomina che, nelle grandi democrazie, sono al primo punto dell’ordinamento generale, che ci si attira addosso l’insulto di essere ossessivamente autoritari, emuli del peggiore mussolinismo. Va da sé che le reprimenda del club degli ottimati che si sentono sentinelle rigorose del tempio di Giove, in verità le hanno subite, nei decenni trascorsi, Berlusconi, Craxi, Fanfani e lo stesso De Gasperi. E che, al momento del varo delle specifiche norme sulla presidenza del consiglio, i padri costituenti, richiamandosi all’esperienza recentissima del fascismo, preferirono dare vita ad un governo privo di poteri decisionali, facendo, invece, del parlamento il luogo esclusivo delle deliberazioni. Prevalse un assemblearismo anarchico: che non solo controllava la politica dell’esecutivo, ma ne determinava i percorsi, le modalità, financo le virgole dei testi dei decreti legge, rimettendo piuttosto al capo dello stato il potere di nominare i ministri e di rinviare alle camere le leggi non gradite.

Da quel pasticcio – nato per il timore diffuso che, passati dalla collaborazione costituzionale alla competizione politica della I legislatura, gli italiani prendessero a ritenere il governo il centro delle decisioni in un sistema pur sempre incardinato su un duplice controllo delle camere -, nasce buona parte dei guai che continuano a manifestarsi sotto gli occhi di tutti. Un vizio d’origine che già Meuccio Ruini e Guido Gonella (presidente della commissione dei 75 il primo; formulatore del programma democristiano per la costituente il secondo) segnalarono appena entrò in vigore la magna charta del ’48. Che non era da loro (e da moltissimi costituenti di diversi gruppi) considerata «la costituzione più bella del mondo», ma soltanto il massimo possibile di compromessi scoordinati, non chiari, contraddittori che gli equilibri politici del momento consentivano. Sicché, piuttosto che bella, la costituzione nacque semplicemente bizzarra.

L’adesione del movimento di Grillo e Casaleggio all’appello dei veterocostituzionalisti rivela, da sola, la carica antipolitica che sta addensandosi sull’Italia. Se si aggiunge lo scontro Grasso-Renzi, si comprende meglio come, se non si provvede, rapidamente, a riformare ab imis il nostro ordinamento, i frenatori fermeranno non un governo, ma lo Stato democratico.

Renzi e i veterocostituzionalisti

È bastato che Matteo Renzi, entrato con baldanza a Palazzo Chigi, scoprisse – come accadde a Pietro Nenni nel dicembre 1963 – che in quel sito non c’è alcuna stanza dei bottoni del potere italiano, e perciò invocasse almeno il diritto, del presidente del consiglio, a revocare la nomina a ministri rivelatisi incapaci, fannulloni o pasticcioni, che s’alzassero gli alti…

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