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“La madre di tutte le riforme”. La definisce così, il premier Giorgia Meloni, la riforma costituzionale che gemmerà dal ddl presentato dalla ministra Maria Elisabetta Alberti Casellati. Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera: l’obiettivo è il premierato. Per il centrodestra è un punto identitario, irrinunciabile. Meloni spiega che la riforma servirà a “mettere fine ai ribaltoni, ai giochi di palazzo e dai tecnici”. Rispetto alla bozza circolata nei giorni scorsi, il testo definitivo del disegno di legge contiene più o meno gli stessi contenuti sui quali – in punta di diritto – abbiamo chiesto un parere a Francesco Clementi, docente ordinario di Diritto pubblico italiano e comparato alla Sapienza, che peraltro è recentemente approdato nelle librerie italiane con “Il presidente del Consiglio dei ministri. Mediatore o decisore” (il Mulino).

Sono cinque gli articoli del ddl con il quale l’esecutivo vuole portare avanti la riforma costituzionale con l’obiettivo di arrivare al premierato. Lei che è sempre stato favorevole alle riforme della forma di governo come valuta in termini formali e sostanziali questo ddl?

Pur essendo appunto sempre attento a riforme della Carta costituzionale che mirino a curare “le degenerazioni del parlamentarismo”, questo testo tuttavia mi sembra assai confuso, ambiguo ed estremamente rigido. Un pasticcio tale da ingenerare molti paradossi, inspiegabili a leggerla con attenzione. Ne cito intanto tre: all’eletto direttamente, non si danno i poteri che hanno gli altri Capi di governo, a partire dalla nomina e revoca dei ministri, che rimangono al Capo dello Stato. Poi non capisco a cosa serva eleggere il premier direttamente, in una campagna elettorale di tipo presidenzialistico, da tifosi, se questi può essere disarcionato dalla sua maggioranza parlamentare, illudendo così gli elettori per tornare ad una palude trasformistica dove le coalizioni potranno cambiare il premier eletto senza colpo ferire. E questo avviene a fronte di una legittimazione diretta che il premier ha, che non è da poco.
Infine, ultimo ma appunto non da ultimo, mi interrogo sulla mancata previsione di una soluzione al fatto che, votando con un’unica scheda, vi possano essere due diverse maggioranze tra Camera e Senato. Un problema se tutto ciò, come sembra, lo si voglia costituzionalizzare. Insomma mi sembra un vero pasticcio questo testo: francamente un’assurdità.

Arriviamo al tema della fiducia. Non si supera, di fatto, il bicameralismo perché entrambe le Camere devono dare la fiducia al premier (benché esso abbia già ottenuto una legittimazione popolare). Un’occasione mancata o una garanzia per evitare squilibri?

A mio avviso un’occasione mancata l’assenza di una fiducia a Camere riunite. Peraltro mi pare inspiegabile il senso di un voto di fiducia palese ed obbligatoria in un sistema ad elezione diretta: se non vi è il Parlamento smentisce gli elettori. E se così fosse, che senso avrebbe aver chiesto agli elettori di eleggere un presidente del Consiglio per poi sfiduciarlo in Parlamento? Una contraddizione.

Il premio di maggioranza fissato al 55%, senza tuttavia individuare una soglia minima di voti, si configura come una forzatura in termini di legittimità costituzionale?

Credo più semplicemente si configuri contro le due recenti sentenze della Corte costituzionale in tema, oltre che contro il buon senso. Senza soglia minima, è difficile immaginare reale plausibilità democratica a questa legge.

L’opposizione chiede, come accade in altri ordinamenti, l’introduzione della sfiducia costruttiva che invece non è prevista nel ddl. Sarebbe una via percorribile?

Sarebbe una via utile per due motivi: la politica si assumerebbe l’onere delle scelte che fa, prendendosene pubblicamente la responsabilità da un lato e, dall’altro, consentirebbe un minimo di ponderazione in più prima di mandare a casa il Governo. Anche la deterrenza è un valore.

Posto che l’intendimento dell’esecutivo è quello di conferire maggiore stabilità ai governi, è questa la strada giusta per raggiungere l’obiettivo?

L’elezione diretta che questo testo introduce non garantisce la stabilità, poiché il Presidente è senza poteri reali, ma garantisce soltanto una rigidità sistemica, che rischia di irrigidire troppo la dinamica della forma di governo. E quindi di bloccare il Paese. Insomma, più che il rischio di un’involuzione autoritaria, qui c’è il rischio di una democrazia bloccata.

Il rapporto Chigi-Colle è molto dibattuto. Secondo lei con questa norma si andrebbero a ledere alcune prerogative del PdR?

Sì, il Capo dello Stato esce fortemente indebolito e ridimensionato, anche nella sua sola naturale forza di soggetto chiamato, come un “motore di riserva”, a salvare il Paese quando il sistema politico-partitico va in crisi oppure quando gli eventi esterni rendono impossibile alle maggioranze politiche governare i processi. Eppure tanti Paesi ci invidiano il ruolo del nostro Presidente della Repubblica perché dentro quella flessibilità c’è stata più volte la salvezza repubblicana, da arbitro di ultima istanza. Legare le mani al Capo dello Stato, impedendogli di intervenire quando “la casa brucia”, è un danno al Paese prima che un errore sistemico.

 

 

Un pasticcio che lega le mani al Capo dello Stato. Clementi sulla riforma

Non si capisce a cosa serva eleggere il premier direttamente, in una campagna elettorale di tipo presidenzialistico, da tifosi, se questi può essere disarcionato dalla sua maggioranza parlamentare, illudendo così gli elettori per tornare ad una palude trasformistica. Questo ddl è ambiguo e rigido. Il Capo dello Stato esce fortemente indebolito. Conversazione con il costituzionalista Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico italiano e comparato all’Università Sapienza di Roma

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