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Via via che le serie macro smaltiscono le distorsioni dovute allo shutdown governativo di ottobre, appare con maggiore evidenza che l’effetto sul ciclo macro US dello stallo politico d’autunno è stato modesto è transitorio.

I dati di ieri confermano questa tesi:

Il labour market report  di novembre è decisamente solido in ogni sua parte. Buona la creazione di posti di lavoro (203.000 vs attese per 185.000), ottimo il dato manifatturiero (27.000 vs attese per 10.000), buoni rispettivamente ore lavorate e earnings. Il calo del numero di impiegati di ottobre dovuto allo shutdown è stato più che recuperato (+818.000 occupati dalla household survey) mentre la forza lavoro ha recuperato 455.000 unità. Il risultato è un tasso di partecipazione che recupera 0.2% a 63%, e una disoccupazione che scende al 7%, ironicamente la soglia indicata a giugno da Bernanke per terminare la rimozione dello stimolo. In generale un dato sopra il consenso che conferma l’attuale passo di creazione di posti, ma con una nota più positiva, perché i segnali di miglioramento sono più uniformemente diffusi nel report.

La university of Michigan consumer confidence, tra i dati più impattati dalla bagarre a Capitol Hill, a novembre ha recuperato ben 7 punti (82.5 da prec 75.1 e vs attese per 76), facendo segnare il massimo da luglio. Tra i driver, il miglioramento del mercato del lavoro, il recupero dell’azionario e il calo della benzina.

La forza dei dati (in particolare del primo) indubbiamente aumenta la possibilità di un inizio riduzione del ritmo degli acquisti di asset in uno dei prossimi 2 FOMC (17/18 dicembre e 28-29 gennaio).

Su questa base, a prima vista sorprende la reazione dei mercati, che dopo un primo sussulto, hanno salutato i dati con sollievo: Wall Street al momento interrompe una serie negativa di 5 sedute, e l’Europa rimbalza moderatamente dopo una serie analoga che però è costata assai di più in termini di calo assoluto. I bonds mettono a segno a loro volta un recupero, e il dollaro si deprezza ulteriormente, in particolare contro l’euro.

Le spiegazioni possibili sono 2.

1) il mercato si è infine convinto che il tapering non costituisce una manovra restrittiva, ma una riduzione di una misura straordinaria che comincia a fare il suo tempo, e che verrà rimpiazzata altro easing, sotto forma di tassi bassissimi più a lungo. Il concetto “tapering is not tightening”, propugnato per mesi da Bernanke, ha preso piede.

2) Una serie di dati macro assai sopra attese (ISM, GDP, Claims, ADP, etc) hanno prodotto un posizionamento alquanto difensivo sui mercati, nonchè creato negli investitori aspettative sul payroll ancora più positive di quelle degli analisti. Il dato è uscito forte, ma non rivoluziona la picture, che vede ancora gli occupati crescere al ritmo di 200.000 unità al mese. Ne consegue che questo dato era già nei prezzi.

Probabilmente, la spiegazione è un misto di queste due ipotesi (con una preponderanza della seconda).

Personalmente, osserverei che il dato di ieri rende ancora più incomprensibile la scelta di settembre di rinviare il tapering, sulla quale avevo già espresso perplessità ai tempi. E  rende ancora più complessa la comunicazione con il mercato. Quale peso dare ad una guidance sui tassi che lega il primo rialzo a obbiettivi di occupazione, o inflazione, se la soglia per l’eliminazione dello stimolo straordinario (7% di disoccupazione) è stata disattesa di un margine cosi grosso (non abbiamo nemmeno cominciato)?

Resto dell’idea che la decisione verrà rimandata ancora di un meeting o due. In fin dei conti lo scenario macro non è significativamente migliore rispetto a settembre, e in ogni caso attendiamo un accordo sul budget, che sebbene sembri vicino, non è ancora nero su bianco. Mi pare che i mercati condividano quest’opinione, dopo i numerosi “al lupo!” uditi nel 2013.
Vedremo.

Giuseppe Sersale, Strategist di Anthilia Capital Partners Sgr.

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