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“The Bri and Global Gateway: searching for complementarity in competing narratives”. Cioè “Belt and Road Initiative e Global Gateway: alla ricerca di una complementarità tra narrazioni concorrenti”. È il titolo di un evento sostenuto dalla missione cinese all’Unione europea a cui hanno preso parte, tra gli altri, l’ambasciatore Fu Cong e Luc Bagur, direttore per la politica di sviluppo sostenibile e coordinamento presso la Direzione generale per i partenariati internazionali della Commissione europea, che si occupa anche di Global Gateway.

Non sono nuovi gli sforzi di Pechino di trovare punti di contatto tra la Belt and Road Initiative, nota in Italia come Via della Seta, e il progetto europeo che dovrebbe essere rivale della stessa ma con standard più alti in termini di sostenibilità. A settembre, l’ambasciatore Fu aveva dichiarato di aver “incontrato personalmente l’inviata speciale dell’Unione europea per l’Asia centrale, che è molto interessata a realizzare progetti comuni nei Paesi dell’Asia centrale”. Tuttavia, fonti europee citate dal South China Morning Post hanno negato che l’inviata Terhi Hakala abbia fatto commenti di questo tipo durante l’incontro con Fu a gennaio o durante il viaggio a Pechino a settembre. Un funzionario ha ricordato che Global Gateway “si basa sui principi chiave della connettività affidabile: essere sostenibile, completa, basata sulle regole, incentrata sull’uomo e adattata geograficamente”. E ancora, la cooperazione con la Belt and Road Initiative “non è esclusa, ma dovrebbe essere basata su questi principi”. Che è un po’ come dire che è esclusa.

Ma la Commissione europea non fa passi indietro sulla questione che riguarda Energias de Portugal SA, chiamata a fornire consulenze sull’attuazione della strategia Global Gateway e della sua implementazione. Nelle scorse settimane il South China Morning Post aveva rivelato l’incarico affidato alla società portoghese nonostante il suo maggiore azionista, China Three Gorges, sia un’azienda di proprietà del governo cinese e sotto l’ala del Partito comunista cinese. Anche la francese Eutelsat ha tra i suoi soci una società cinese, ossia il fondo sovrano China Investment Corp.

Dopo l’articolo del South China Morning Post e le richieste di chiarimenti da parte di alcuni europarlamentari, la Commissione europea ha difeso la sua decisione. C’erano tre da soddisfare, ha spiegato Ana Pisonero Hernandez, portavoce della Commissione, citata dallo stesso giornale: avere la sede centrale nell’Unione europea, essere sotto il controllo dell’Unione europea e, per le associazioni imprenditoriali, rappresentare il settore privato di almeno tre Stati membri dell’Unione europea. Il punto è che non esiste una definizione legale di “sotto il controllo dell’Unione europea”: per questo, nel caso in questione si è guardato se gli azionisti extra-Ue detenevano la maggioranza delle azioni della società, la storia della società e il suo radicamento nello Stato membro, la nazionalità dell’amministratore delegato, gli eventuali legami con la Russia e il mancato rispetto delle sanzioni. “La società Three Gorges possiede il 20% delle azioni, ma la gestione esecutiva di Edp è assicurata da cittadini portoghesi e il suo consiglio di amministrazione ha una maggioranza di cittadini dell’Unione europea”, ha detto Pisonero.

Sembra, però, un autogol: un progetto nato come rivale della Belt and Road Initiative, per giunta con un certo coordinamento a livello G7 e con gli Stati Uniti, rischia di finire con l’offrire occasioni alle società statali cinesi. Se ne parlerà la prossima settimana al vertice Ue-Cina. Forse.

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