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Nonostante nessuna relazione ufficiale sia ancora in piedi tra i due Paesi, funzionari sauditi e israeliani si parlano, si incontrano, più o meno formalmente. Nei giorni scorsi, il ministro israeliano del Turismo, Haim Katz, ha fatto la storia diventando il primo funzionario del gabinetto israeliano a visitare pubblicamente Riad. Domenica 1º ottobre, il ministro israeliano delle Comunicazioni, Shlomo Karhi, lo ha seguito (accompagnato da una delegazione e membri della Knesset): è a Riad per partecipare alla conferenza dell’Unione postale mondiale.

Muovere lo status quo per ottenere normalità

Se appena un anno fa avessimo scritto di due ministri israeliani nel regno nel giro di una settimana saremmo stati non ottimisti, ma fantasiosi. E invece, non solo: all’inizio di questo mese, una delegazione commerciale e diplomatica israeliana ha partecipato a una conferenza sulla sicurezza informatica sponsorizzata dal governo saudita e a una riunione dell’Unesco rispettivamente a Dammam e Riad. Formiche.net tiene traccia di questi movimenti perché ciò che c’è sul tavolo è di portata enorme, con interessi che ricadono direttamente sul Mediterraneo allargato, dunque anche sull’Italia.

Come ha detto il primo ministro saudita, il principe ereditario Mohammed bin Salman, “ogni giorno che passa” è più vicina. Una fonte regionale spiega che questi contatti pubblici servono anche a limare piano piano lo status quo (che attualmente è: zero relazioni pubbliche, anche se dialoghi informali sulla sicurezza esistono da tempo). “Servono perché la leadership saudita ha particolarmente a cuore ciò che pensano i propri cittadini, e il processo di costruzione di una relazione con Israele non può essere brusco: sui media occidentali la chiamano normalizzazione, e infatti serve che via via diventi normale che sauditi e israeliani si parlino pubblicamente, anche prima di qualcosa di formale”.

Un cambiamento può essere individuato anche sul fronte palestinese. Viaggiando attraverso la Giordania, la prima delegazione ufficiale saudita dal 1993 è arrivata nei giorni scorsi a Ramallah, la capitale de facto dell’Autorità palestinese. L’ambasciatore Nayef al Sudairi – che dalla Giordania si occupa anche della questione palestinese – ha dichiarato pubblicamente e privatamente l’impegno del suo governo per “la causa”, seguendo ciò che altri funzionari sauditi hanno detto in altri consessi, anche durante la sessione di apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Riad promette che non lascerà soli i palestinesi, riprenderà a fornire aiuti finanziari e si impegnerà nuovamente a spingere per maggiori diritti. Si ventilano ipotesi complesse e irrealizzabili, che servono ad alzare l’attenzione e la narrazione su un dossier che invece è imbevuto di pragmatismo.

Obiettivi Sauditi: preservare lo status nel mondo islamico

Cercando di essere il punto di riferimento quando si tratta degli alleati arabi dell’America, Riad vuole cementare il suo status anche sul grande dossier palestinese anche perché è possibile che il rinvigorimento della questione palestinese venga applaudito nei circoli più idealisti a Washington e Bruxelles – quelli che contestano costantemente al regno la violazione dei diritti umani. I leader sauditi ritengono di poter utilizzare queste mosse come tattica negoziale con l’amministrazione Biden mentre cercano di raggiungere un’intesa con gli Usa (e Israele) che aumenti la sicurezza e la deterrenza saudita – e mentre ragionano con l’Ue sugli scambi commerciali.

Nel frattempo, i sauditi credono anche che tornare a un ruolo attivo in Cisgiordania possa dare alla monarchia del Golfo una piattaforma per controbilanciare la mescolanza iraniana. Li aiuterà anche a competere con gli Emirati Arabi Uniti, che sembrano cercare di influenzare gli affari palestinesi sponsorizzando il campo politico di Mohammed Dahlan, un leader palestinese fortemente critico nei confronti del presidente dell’Autorità, Mahmoud Abbas (Dahlan, figura controversa, politico che ha lavorato per una distensione utilitaristica tra Israele e Paese arabi, attualmente vive in esilio ad Abu Dhabi e per lui si parla da tempo di un ruolo futuro). È anche probabile che il coinvolgimento diretto con i circoli politici di Ramallah dia al Regno la possibilità di identificare i lealisti che sosterranno la sua agenda.

Su tutto, i sauditi hanno una necessità strategica: devono difendere il loro status di protettori dei diritti dei palestinesi nel più ampio mondo musulmano, perché sono i protettori dei luogo sacri dell’Islam. Ossia sono il Paese più importante al mondo tra quelli islamici. A Riad si ritiene che qualsiasi successo ottenuto per i palestinesi potrebbe aiutare la leadership saudita a vendere l’accordo di normalizzazione con Israele agli scettici a corte, ai ai critici sauditi locali e ai grandi player internazionali. Ci sono infatti componenti interne alla corte Salman che aspettano qualsiasi occasione buona per creare destabilizzazione (nonostante le repressioni contro il dissenso); ci sono Paesi islamici rivali, come l’Iran, che potrebbero usare la distensione con Israele per spingere la narrazione anti-saudita; ci sono attuari esterni alla regione mediorientale, come Indonesia e Malesia, che osservano quanto accade con interesse diretto.

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