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Una nave chimichiera che viaggiava dal porto saudita di Jubail a quello indiano di Mangalore è stata colpita da un drone mentre si trovava a 120 miglia nautiche dal porto di Veraval, nel sud-ovest dell’India. L’attacco, secondo il Pentagono, sarebbe stato condotto direttamente dall’Iran e non dagli alleati yemeniti Houthi, che stanno incendiando il Mar Rosso. Soprattutto, l’attacco dimostra quanto ormai siano profonde le connessioni tra Mediterraneo allargato e Indo Pacifico.

La nave, battente bandiera liberiana ma appartenente alla flotta di una compagnia giapponese, sarebbe stata colpita da un drone “one way” (gergo tecnico per “kamikaze”) a migliaia di chilometri dall’area ristretta di Bab el Mandeb, dove gli Houthi sfogano contro le navi mercantili le loro ambizioni da attori regionali — usando come facciata un appoggio, interessato, alla causa palestinese. Il drone poteva essere simile agli Shahed-136 iraniani che vengono usati dalla Russia in Ucraina.

Si tratta di un’escalation di valore geostrategico: l’attacco avviene in pieno Oceano Indiano e non nelle zone distali dove la toponomastica che individua le aree locali (il Mar Arabico, il Golfo di Somalia eccetera) confonde l’oceanografia. Il punto di connessione tra le due più importanti regioni del mondo è finito oggetto di un’azione ibrida, condotta da un attore non statale (gli Houthi) appoggiati da uno stato paria che non rinuncia all’azione militare per rivendicare i propri interessi geopolitici (l’Iran) e che gode di un sostengo — a momenti nemmeno troppo sfumato — di due potenze che si dimostrano non responsabili (Russia e Cina).

Nelle stesse ore in cui la marina indiana si movimentava per reagire a quanto accaduto a largo di Veraval, un comandante del Corpo dei guardiani della rivoluzione iraniana mandava la sua minaccia provocatoria: il Mar Mediterraneo potrebbe essere chiuso se gli Stati Uniti e i suoi alleati continuassero a commettere “crimini” a Gaza”. “Presto aspetteranno la chiusura del Mar Mediterraneo, (lo Stretto di) Gibilterra e di altri corsi d’acqua”, riporta il media affiliato al Corpo Tasmin, citando il generale di brigata Mohammad Reza Naqd.

L’Iran non ha accesso diretto al Mediterraneo, ma Naqdi ha parlato della “nascita di nuove potenze di resistenza e della chiusura di altre vie d’acqua”. E ancora: “Ieri, il Golfo Persico e lo Stretto di Hormuz sono diventati un incubo per loro, e oggi sono intrappolati […] nel Mar Rosso”.

Queste minacce marittime arrivano mentre gli scontri continuano al confine tra Hezbollah e Israele in Libano, e una milizia irachena parte di quell’Asse della Resistenza che il Corpo ha creato negli anni e lanciato contro l’Occidente, ha rivendicato la responsabilità di un attacco di droni al giacimento di gas Karish israeliano nel Mediterraneo orientale (da notare: Israele non ha confermato la rivendicazione e l’attacco, ma solo di aver abbattuto tre droni).

Servono i numeri più delle parole per comprendere la situazione. Ad oggi, gli Houthi hanno condotto oltre 100 attacchi con droni e missili (altri cento attacchi li hanno subiti le forze statunitensi in Iraq e Siria, sempre per opera di quei gruppi affiliati al Corpo che seguono un’agenda più o meno coordinata con quella dei protettori iraniani). Sono quasi 100 (in realtà qualcuna in più) le navi portacontainer reindirizzate per evitare minacce. Mentre equivale a circa il 25% della flotta della US Navy quello che attualmente opera nell’area di responsabilità del CentCom, dove si sta svolgendo la caoticizzazione ai traffici marittimi globali. In tutto, ci sono oltre 50 navi tra quelle americane e alleate schierate. Eppure gli attacchi non si fermano.

Quello di ieri in pieno Indiano è stato non solo l’attacco più distante da Gaza, individuabile come epicentro ipotetico di questa destabilizzazione globale se si segue la direttrice narrativa degli Houthi. Ma è stato anche il più significativo per due ragioni: primo, il Pentagono non ha esistito a incolpare direttamente l’Iran, seguendo una linea che negli ultimi tre giorni Washington ha consolidato, ossia far emergere le responsabilità di Teheran (che non è detto siano totali, perché la Repubblica islamica non è un monolite e spesso alcune scelte del Corpo non sono completamente condivise con il governo); secondo, ha implicato un coinvolgimento diretto dell’India.

“Abbiamo un interesse acquisito e abbiamo sostenuto la libera circolazione della spedizione commerciale. Stiamo monitorando gli sviluppi lì (nel Mar Rosso, ndr) abbiamo anche fatto parte degli sforzi internazionali per garantire le rotte libere, sia per combattere la pirateria che altro […] Abbiamo fatto parte degli sforzi per garantire il transito sicuro delle navi nel Mar Arabico e apprezziamo la libera circolazione della spedizione commerciale”, ha spiegato nei giorni scorsi il portavoce del ministero degli Esteri di New Delhi, commentando la presenza di due assetti militari del Subcontinente nell’area. Ieri anche la MV Sai Baba, di proprietà indiana, è finita sotto attacco, protetta dall’intervento dello USS Laboon, cacciatorpediniere appena entrato in un teatro operativo che si fa sempre più globale.

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