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Sono passati più di due mesi dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, attacco che ha portato al riaccendersi del conflitto israelo-palestinese, sostanziatosi nell’operazione militare promossa dalle Israeli Defence Forces in risposta all’aggressione portata avanti dal gruppo terroristico islamista. A due mesi di distanza però, al netto di una brevissima tregua interrottasi dopo poche ore, non sembra che all’orizzonte ci siano prospettive di una risoluzione delle ostilità.

Quale sarà la situazione a Gaza tra un anno? E quale singola politica potrebbe essere perseguita da ogni attore di questo conflitto per rendere meno probabile che questa guerra finisca come tante altre, con le stesse minacce alla sicurezza che permangono e le principali rimostranze politiche irrisolte? Sono queste le due domande che la redazione di Foreign Policy ha posto a vari professionisti, politici ed esponenti del mondo accademico, per individuare quali passi pragmatici vadano intrapresi non per trovare una soluzione definitiva alla questione, ma per arrivare ad un miglioramento incrementale rispetto alla drastica situazione attuale.

“La campagna di Israele a Gaza continuerà fino a quando le capacità militari di Hamas non saranno eliminate. È difficile ipotizzare quanto tempo ci vorrà, ma se vogliamo essere onesti, ci vorrà più tempo di quanto le società occidentali siano disposte ad accettare, più tempo di quanto i loro leader, e in particolare il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, un amico intimo di Israele, siano disposti a tollerare”. Così risponde alla domanda sul tempo Ehud Olmert, ex primo ministro israeliano, riallacciandosi alle sue stesse parole per rispondere al quesito sul cosa fare in futuro: “Proprio per questo motivo, è imperativo che Israele fornisca già in questa fase un quadro di ciò che avverrà dopo che l’esercito avrà completato il suo lavoro”.

Olmert sottolinea come Israele non abbia né le intenzioni né le capacità di rimanere a Gaza dopo la fine dell’operazione in corso, ma che una presenza militare esterna (magari sotto mandato delle Nazioni Unite) rappresenti la via per il mantenimento della stabilità. Essa dovrebbe garantire la ricostituzione di un sistema di governance e il riemergere di autorità civili, le quali poi dovranno istituire un apparato di sicurezza capace di sostituirsi al contingente militare esterno. Ma parallelamente a questo processo, sottolinea l’esponente politico israeliano, Tel Aviv deve aprire immediatamente i negoziati con l’autorità palestinese per l’implementazione della Two-States solution, unico orizzonte politico che possa garantire la già citata stabilità. “Non c’è dubbio che il governo Netanyahu non sia disposto, incapace e impreparato a fare una mossa così coraggiosa. Per questa e altre ragioni, il governo deve farsi da parte immediatamente” asserisce Olmert.

Zaha Hassan, fellow del Carnegie Endowment for International Peace, si concentra più sull’aspetto umanitario. Per i prossimi mesi l’esperto prevede un forte peggioramento della situazione per i civili palestinesi, in concomitanza di un altrettanto lunga operazione militare che sarà comunque finalizzata all’instaurazione di un regime di governance civile. Hassan individua la risposta alla seconda delle due domande che pone FP nell’azione collettiva e concertata della comunità internazionale, e in particolare delle Nazioni Unite, che dovranno indicare una strada da percorrere, strada che sia gli attori palestinesi che quelli israeliani dovranno percorrere. “Questo tipo di impegno internazionale richiederà anni prima di dare i suoi frutti, ma è l’unico modo per cambiare la dinamica tra Israele e i palestinesi”.

Meno proclami e più fatti è la ricetta dell’ex-ambasciatore Usa in Egitto Daniel Kurtzer. Tel Aviv dovrebbe concentrarsi meno sulla retorica del “distruggeremo Hamas” e di più sul degradarne effettivamente le capacità militari, curandosi allo stesso tempo sulle “centinaia di migliaia di civili senza casa, affamati, malati e feriti che vivranno senza governo e senza sicurezza interna. Vivranno anche senza speranza, pronti a essere reclutati in movimenti di resistenza violenta, tra cui Hamas 2.0 o peggio”. Civili a cui sarà necessario offrire una roadmap chiara e definita non solo sulla transizione politica, ma anche sulla ricostruzione di Gaza. Di cui Washington dovrà essere garante e promotore.

La visione di Elliot Abrams, senior fellow in Middle Eastern studies per il Council on Foreign Relations, differisce dalle altre. Abrams vede scarsa disponibilità internazionale ad impegnarsi nel settore, e ritiene che, anche una volta conclusasi l’operazione militare, sarà Israele stessa a svolgere la funzione del “poliziotto”, seppure dall’esterno e senza boots on the ground. “Tutti si lamenteranno, ma nessuno si assumerà questa responsabilità, tranne Israele”. Per il futuro, vede la soluzione nella nascita di una leadership palestinese più forte e competente di quelle che ci sono state sino ad ora come la precondizione necessaria per sviluppare qualsivoglia processo di pacificazione e stabilizzazione.

Omar M. Dajani, ex consulente legale del team negoziale palestinese e professore di diritto all’Università del Pacifico, torna sulla questione umanitaria, sottolineando come neanche la fine delle ostilità sarà sufficiente per portare benessere nei territori palestinesi. E suggerisce un uso ponderato del potere di veto di Washington in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (e in particolare del suo non utilizzo) per influenzare la politica di Tel Aviv verso un approccio meno rigido nei confronti della questione palestinese.

E ancora, l’annessione di una porzione di terreno di Gaza da parte di Israele per scoraggiare ulteriori azioni come quella del 7 ottobre, secondo quanto proposto da Eugene Kontorovich, o la necessità di costringere Israele al rispetto del diritto internazionale secondo quanto proposto da Diana Buttu. In un sistema complesso come quello israelo-palestinese le strade da battere sono potenzialmente tante, ma non è dato sapere non solo quale sia la più efficace, ma se all’atto pratico avranno efficacia alcuna.

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