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Due miliardi e mezzo di persone al 2050 e alcune delle economie a crescita più rapida di tutto il mondo. Elementi che sottolineano l’importanza crescente del continente africano, che storicamente è sempre stato terreno conteso tra le potenze globali. Oggi più che mai la competizione globale passa anche dalla battaglia per i cuori e le menti degli africani, settore in cui le grandi autocrazie si muovono aggressivamente da anni, a scapito della storica influenza occidentale, a sua volta appesantita dal retaggio del colonialismo. Ma lo scenario non è affatto così semplice, e la soluzione passa da una revisione della postura occidentale – a favore della piena legittimazione degli attori africani.

Questo il quadro che tratteggia The “Rise of the Rest” in Global Media and Competition Over News Narratives in Africa, un rapporto a cura di Dani Madrid-Morales (docente di giornalismo e comunicazione globale alla University of Sheffield) e Herman Wasserman (capo del dipartimento di giornalismo alla Stellenbosch University, Sudafrica) all’interno dell’ultimo rapporto Ispi, Is Africa Turning Against the West? (“L’Africa si sta rivoltando contro l’Occidente?”).

Gli autori partono ricordando il golpe militare in Niger dello scorso luglio e la sospensione delle trasmissioni delle emittenti francesi, accusate di lavorare contro gli interessi del Paese. Era successo anche in Mali nel 2022, mentre nel 2021 l’autorità dei media eritrea aveva minacciato di fare lo stesso con le emittenti statunitensi – un fatto ampiamente rilanciato dalle rivali cinesi (CGTN, Xinhua), sostenute  dallo Stato al pari delle realtà russe (Sputnik, RT, Ruptly) che lavorano da anni per aumentare la loro influenza nelle infosfere africane. Parallelamente, anche i canali qatarini (Al Jazeera) e turchi (Trt, Anadolu) si stanno affermando come canali alternativi a quelli anglosassoni (Bbc, Reuters, Cnn, Voice of America).

La crescente pluralità e localizzazione dei media internazionali indicano che il “colonialismo mediatico” occidentale di cui si parlava negli anni 90, epoca di liberalizzazione dei mercati africani, sia un concetto obsoleto. E forse può sorprendere il fatto che nonostante la “de-Occidentalizzazione” in corso nell’informazione africana, la grande maggioranza degli intervistati nei Paesi oggetto di studio del rapporto – Angola, Etiopia, Sudafrica e Zambia – si informa principalmente attraverso fonti anglosassoni. I dati e le percezioni variano grandemente tra Paesi, ma ovunque l’audience dei media russi e cinesi rimane nettamente inferiore.

Questa tendenza viaggia in senso inverso alle volontà delle due autocrazie, che soffiano sul sentimento antioccidentale per validare il proprio modello – evidenziando storie come il rallentamento della controffensiva ucraina e gli insuccessi francesi nella campagna contro il jihadismo nel Sahel come fallimenti delle democrazie liberali. Ma la percezione del pubblico africano generalmente lavora contro Russia e Cina, che gli intervistati percepiscono come meno libere e obiettive – anche se Washington è spesso indicata come “principale fonte di propaganda estera” in alcuni Paesi, a conferma del fatto che talvolta i media transnazionali statunitensi sono ancora visti come agenti dell’imperialismo mediatico e culturale. Cosa che Pechino e Mosca cavalcano inquadrando le loro narrative come messaggi anticolonialisti.

Entrambe le capitali sono impegnate ad aumentare la loro influenza. Le loro agenzie di stampa, sovvenzionate dallo Stato, offrono contenuti gratuitamente o a costi ridotti rispetto a quelle occidentali che rispondono a logiche di mercato, e il quotidiano China Daily addirittura è distribuito gratuitamente in alcune capitali africane. Entrambe complementano gli sforzi nel mondo dell’informazione con quelli in altri settori, come quello delle infrastrutture (Pechino finanzia progetti di connettività attraverso la Via della Seta) e quello militare (Mosca, attraverso il gruppo Wagner, ha gioco facile ad alimentare il sentimento antifrancese nel Sahel), cercando l’effetto moltiplicatore e talvolta alimentando le narrative dell’altro – come fanno le emittenti cinesi con la disinformazione russa sull’Ucraina.

Il loro successo è solo parziale, come evidenziano i dati. E la radice del fenomeno è la conclusione su cui gli autori vogliono portare l’attenzione del lettore: “purtroppo la maggior parte dei dibattiti sulla disinformazione, la manipolazione dell’informazione e l’interferenza straniera lasciano fuori dall’equazione l’operato africano. In altre parole, non si presta sufficiente attenzione al ruolo attivo che i consumatori e i professionisti dei media africani svolgono nel ‘decodificare’ i contenuti dei media”. Il fatto che sempre più Paesi esterni cerchino di influenzare le notizie africane “non preclude ai media e ai giornalisti africani la possibilità” di “selezionare i punti di vista che preferiscono mettere in evidenza sulla base del proprio giudizio professionale e, potenzialmente, delle proprie opinioni”.

In effetti, i dati rilevano uno scollamento tra la propaganda autocratica e il linguaggio dei media africani. Analizzando oltre mezzo milione di articoli pubblicati in circa 1.200 siti e 40 Paesi africani tra maggio 2021 e novembre 2022, il sentimento nei confronti della Russia “sembra essersi deteriorato” in seguito all’invasione su larga scala dell’Ucraina. È indubbio che nell’ultimo decennio il panorama mediatico africano sia diventato uno spazio in cui si riflettono le lotte geopolitiche, evidenziano gli autori, ma “le vecchie nozioni di centro e periferia nei media globali sono diventate obsolete” per una serie di fattori.

È in corso una corsa all’attenzione del pubblico africano da parte di una serie di nuovi attori in tutti i campi dei media – piattaforme tradizionali come televisione e radio ma anche, in misura crescente, i media digitali. Ed è vero che i discorsi giornalistici competono con influencer e disinformazione per l’attenzione dei consumatori africani. Ma in tutto questo, evidenziano gli autori del rapporto, “occorre prendere sul serio [il ruolo] dei produttori e del pubblico dei media africani”, perché la semplice presenza di attori globali “non equivale necessariamente a impatto e influenza”. Il quadro generale che emerge evidenza “l’eterogeneità del panorama mediatico africano, le difficoltà incontrate dal [resto del mondo] nello sfidare il dominio delle narrazioni giornalistiche da parte dell’‘Occidente’ e la necessità di sfumature per comprendere i lenti cambiamenti strutturali”.

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