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Il guaio di Israele e degli ebrei è che vengono identificati da sempre con il famigerato capitalismo e, soprattutto, con la super-bistrattata finanza. Se, nel mondo, non avesse mai preso vigore questa assimilazione, quasi certamente la storia dei popoli avrebbe imboccato un’altra direzione, stavolta senza persecuzioni, senza campi di sterminio, senza olocausti. Ma dal momento che certe tesi sono più dure del granito e dal momento che la libertà economica spaventa vasti settori dell’opinione pubblica (non soltanto nei Paesi a mentalità feudale), ecco che contro l’efficiente e produttivo Israele, oltre che contro i dinamici ebrei sparsi nel pianeta, scatta – periodicamente – una spirale d’odio basata sul progetto dichiarato di eliminarli dalla faccia della Terra.

Non sono solo gli estremisti del gruppo Hamas a voler cancellare Israele ed ebrei. Anche in Occidente, dei cui valori liberaldemocratici Israele è l’unico avamposto in Medio Oriente, il fronte dell’antisemitismo è più esteso e irriducibile di quanto riportano le statistiche. Anzi, più si riducono le testimonianze dirette dei sopravvissuti ad Auschwitz, più svanisce il sentimento di vicinanza verso il popolo più perseguitato di tutti i tempi. Il che non è di buon auspicio per la geopolitica (e la pace mondiale) prossima ventura.

La verità è che, come si accennava all’inizio, ad Israele non viene perdonato quello che i loro nemici considerano un irreparabile peccato mortale: l’immedesimazione dell’ebraismo con il capitalismo e, addirittura, con il suo derivato più vilipeso (la finanza). Lo stesso Karl Marx (1818-1883) aveva legato l’ebraismo all’affermazione del capitalismo, entrambi “servi del dio denaro”.  Sappiamo tutti, tra l’altro, che così non fu e che la storia di Firenze e Venezia, città chiave nel passaggio da un’economia feudale a un’economia finanziaria, attesta tutt’altro. Ma, si sa, come diceva il grande fisico Albert Einstein (1879-1955), è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio. E ancora. Ammesso, pure, che il capitalismo sia stata una diabolica invenzione ebraica, perché non riconoscere che questa vituperata rivoluzione del capitale ha permesso di salvare dalla miseria miliardi di persone? Perché non riconoscere che, malgrado tutti i suoi limiti, il capitalismo rimane tuttora il sistema più collaudato nell’allocazione delle risorse e nella crescita socioeconomica di tutte le nazioni?

Macché. Il capitalismo è così indigesto a imponenti e ideologizzati settori dell’Occidente da indurli a schierarsi (a prescindere) al fianco di tutti coloro che, per una ragione o per un’altra, combattono, in nome della controffensiva allo sfruttamento delle masse, contro i simboli del mercato e del benessere. Se poi questi simboli conducono alla presenza, al ruolo di Israele nel globo, tanto di guadagnato, perché l’ostilità verso l’equazione ebraismo-capitalismo verrà mascherata da una battaglia più popolare: quella per la liberazione della Palestina. Un argomento assai più convincente rispetto a quello, già provvisto di un ampio consenso mediatico in Occidente, della lotta sovranazionale in vista di un fantomatico <nuovo modello di sviluppo> (leggi: no al mercato, sì alla pianificazione).

Ovviamente, numerosi intellettuali dell’Ovest non sono estranei al processo di demonizzazione della libertà economica, un atteggiamento che li porta, oggettivamente, a solidarizzare con tutti gli antisraeliani in circolazione e, paradossalmente, li porta ad unirsi a tutti gli Stati antiebraici che usano i proventi del petrolio (bersaglio principale dell’ecologismo occidentale) per finanziare i movimenti terroristici come Hamas. Ma quando è in ballo la guerra al modello capitalistico, non c’è coerenza dottrinaria che tenga: anche gli inquinanti petrodollari vanno bene contro Satana (Israele) e contro la (presunta) cacofonia etica del mercato. La Causa per il trionfo del Bene sul Male non deve conoscere mezze misure, tanto meno deve porsi dubbi di ordine morale o moralistico. L’importante è far fuori Israele e, per suo tramite, sferrare un colpo micidiale contro la cultura e i valori liberaldemocratici rappresentati dallo Stato ebraico. Poi sarà il turno, nel segno della sfida al dio denaro, di tutti gli altri Paesi ancora caratterizzati da un’accettabile combinazione tra libertà politiche e libertà economiche.

Non è un caso che lo schieramento antisraeliano sia sostenuto, non soltanto militarmente ed economicamente, da tutti gli Stati che si oppongono al costituzionalismo liberale e alla società aperta già esaltata dall’epistemologo Karl R. Popper (1902-1994). Così come non è un caso che, in Occidente, il partito trasversale (intellettuale) antisraeliano sia formato, più che dai nipoti di Marx, dagli epigoni dello scrittore britannico Charles Dickens (1812-1870), il cui classico Tempi difficili ha nuociuto alla reputazione del capitalismo, di cui ha sciorinato gli effetti distruttivi sulla vita familiare, più dell’intera biblioteca marxiana e marxista.

Il rancore più o meno sparso contro la civiltà moderna trova un punto d’incontro nella mobilitazione antisraeliana in molte città dell’Occidente. L’ebreo viene sottinteso, e a volte rappresentato, come l’Antiproletario, più che come l’Anticristo; come lo Sfruttatore più che come il Realizzatore. Una raffigurazione, questa, che aiuta a sollevare le coscienze, ad agitare le piazze, perché accomuna il popolo palestinese al popolo degli sfruttati di tutte le aree continentali in cui imperverserebbe lo strapotere del denaro. Quanto sia sbagliata questa descrizione dei rapporti di forza in Medio Oriente e nel resto del mondo, solo uno spirito vaccinato dalle ideologie potrebbe appurarlo e riconoscerlo. Tutti gli altri no, tutti gli intossicati no. Per molti di loro c’è sempre una cospirazione, c’è sempre un complotto beffardo dietro il successo economico di un Paese o dietro l’insuccesso di un altro.

Per chiudere. Israele e l’Occidente stanno pagando un caro prezzo per questa vulgata, più fantasiosa di una favola. Anche perché non è semplice vincere una guerra se e quando il nemico è in casa.

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