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Il tema delle divisioni – culturali, ideologiche, religiose, socioeconomiche – che lacerano l’Occidente induce molti all’interno dello stesso a interrogarsi se queste siano tali da comprometterne l’unità in via definitiva, determinandone quel tramonto di cui parlava Spengler tra l’inizio del secolo scorso e la fine del precedente.

Dovendosi però escludere l’esistenza del vuoto geopolitico, è utile anche assistere ai dibattiti interni alle potenze eventualmente candidate a raccogliere il testimone da quell’Occidente che si suppone in irreversibile declino, al fine di coglierne anche solo la percezione di essere o meno al tornante decisivo della Storia e di poter quindi sferrare l’attacco finale.

A questo proposito, è di particolare interesse l’intervento, nell’ultimo numero di Limes, di Sergej Karaganov, politologo molto influente nei circoli strategici moscoviti, il quale, oltre a riservare parole al vetriolo nei confronti dell’Europa e degli Stati che la compongono – riflesso a sua volta dell’auspicio che un eventuale grand bargain tra Stati Uniti e Russia avvenga sopra le loro teste – si spinge a prevedere il passaggio da un’alleanza informale a una formale con la Cina in funzione antioccidentale qualora l’Occidente non riemerga “dalle dinamiche in cui sta precipitando” o “se gli Stati Uniti si ritroveranno in una fase di estrema instabilità”. Su quanto sia probabile questo scenario Karaganov si astiene dalprodurre stime, tuttavia l’invito a Russia e Cina a farsi trovare pronte induce a pensare che tale probabilità non sia così trascurabile ai suoi occhi.

Un breve passaggio viene riservato anche alla questione israelo-palestinese, in sé non così strategica agli occhi di Mosca perché l’influenza storicamente esercitata nei confronti del variegato universo palestinese è andata perdendosi nel corso del tempo a beneficio di altri attori regionali e perché semmai con lo Stato ebraico sono prevalse anche in tempi recenti esigenze di coordinamento tattico, per quanto di breve durata, se non altro per approfittare dei non infrequenti disallineamenti tra Gerusalemme e Washington. Così, pur definendo l’operato di Israele ‘genocida’, a Karaganov interessa di più il “genocidio” perpetrato ai danni di cristiani, alawiti e drusi siriani a seguito dell’uscita della Siria dalla sfera di influenza russa.

Di “genocidio” non parla invece il Global Times, ossia l’organo del Partito Comunista Cinese con un’edizione in lingua inglese, né si registrano nel Paese di Mezzo, forse per ragioni di distanza culturale oltre che geografica,manifestazioni popolari a favore della causa palestinese quali quelle che hanno luogo in Occidente in proporzioni sempre maggiori. Di conseguenza, il tema rimane molto sullo sfondodel dibattito politico e culturale di un Paese pur consapevole di esercitare un ruolo via via più ampio su scala globale.

Ciò che più sta a cuore a Pechino, invece, è indagare quanto il conflitto israelo-palestinese sia in grado di scavare un solco all’interno del fronte occidentale e quanto tali fratture ne minino la compattezza e la coesione. “More US allies announce recognition of State of Palestine” titola così il GT qualche giorno fa, ponendo l’accento più sulla divergenza di vedute tra Washington e i suoi alleati che sull’atto di riconoscimento in sé ed evidenziando – sono le parole del professore Zhu Weilie della Shanghai International Studies University – il crescente isolamento della prima nell’ambito della comunità internazionale. Per inciso, la linea ufficiale della Cina prevede il riconoscimento di entrambi gli Stati, per proporsi innanzitutto come fattore di stabilità in contrasto, appunto, con l’instabilità che si imputa agli Stati Uniti di esportare sulla scena internazionale.

Tornando al tema più generale, sempre il GT ha pubblicato qualche settimana fa, all’indomani della morte di Charlie Kirk, un’articolata analisi sulla crescente popolarità degli “influencers della destra radicale” in Occidente. La conclusione è stata affidata a Cui Hongjian, docente della Beijing Foreign Studies University, per il quale il punto focale rimane sempre l’insieme di contraddizioni – bassa crescita economica, distribuzione ineguale delle risorse, impoverimento della popolazione – che a suo dire è da porre alla base dell’attuale congiuntura negativa dell’Occidente.

È una lettura degli eventi che, pur nell’enfasi posta quasi esclusivamente sulla struttura economica rispetto alla sovrastruttura politica, riprende quanto elaborato già qualche decennio fa da Wang Huning, pensatore tra i più influenti nell’upper echelon della Repubblica Popolare e oggetto di una riflessione molto approfondita da parte di Alessandro Aresu nel suo ultimo, brillante lavoro dal titolo emblematico “La Cina ha vinto”.

Si ritorna così all’interrogativo iniziale: contraddizioni, lotte, divisioni interne all’Occidente ne prefigurano la scomparsa? La Cina, o quantomeno uno schieramento che le affidi un ruolo di guida, sta veramente vincendo, magari per ragioni diverse da quelle indicate da Aresu?

Nel Capitolo 4 del 1° Libro dei Discorsi, Niccolò Machiavelli rimproverava coloro che “inconsideratamente dannano” i “tumulti” tra la nobiltà e la plebe che avevano caratterizzato gran parte della storia repubblicana, ricordando invece che questi, paradossalmente, avevano contribuito a rafforzare piuttosto che a indebolire le fondamenta dello Stato romano.Prescindendo dalle specificità storiche di quell’esperienza e tentando di trarre una lezione più ampia dalle parole del pensatore fiorentino, si può quindi giungere alla conclusione che la presenza in sé di fratture e contrasti interni è segno di salute di una comunità politica; si tratta solo di porre un limite alla loro intensità, consapevoli che la loro soppressione forzata porta, questa sì, al caos e all’ingovernabilità.

Ma questo, grazie anche alle riflessioni di Wang Huning proprio su Machiavelli, a Pechino lo sanno bene.

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