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Alla settimana dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la Cina ha scelto di presentarsi come custode del multilateralismo e delle regole condivise, in contrapposizione a un Occidente percepito come meno impegnato su questo fronte. Ossia, Pechino si è voluta mostrare garante di un rinnovato ordine internazionale fondato sulle regole. Il premier Li Qiang ha usato il podio di New York per sottolineare che solo la cooperazione tra Stati, basata su fiducia reciproca, può generare la forza necessaria ad affrontare le crisi globali. Senza mai citare direttamente Washington, il suo discorso ha rappresentato una replica implicita alle parole d’ordine dell’amministrazione Trump, dal nazionalismo “America First” all’equilibrio di potere espresso nel principio della “pace attraverso la forza”.

Li ha avvertito che il ritorno a logiche di sopraffazione comporterebbe divisioni e violenza, e ha indicato una responsabilità specifica per le grandi potenze: difendere la giustizia e la stabilità internazionale, senza ridurre il diritto al semplice riflesso della forza. È una retorica nota, che cerca di proiettare la Cina come attore di equilibrio, in un contesto di crescente frammentazione geopolitica. È l’elevazione nella massima assise internazionale della narrazione strategica del leader Xi Jinping, alla base delle Global Initiative con cui cerca di lasciare il segno cinese sulla storia — e di piegarla se serve al servizio delle caratteristiche cinesi.

Tale narrazione è altrettanto piena di incoerenze, dalla proiezione di forza (economica e non solo) rappresentata dai grandi progetti come la Belt and Road Initiative, alla morsa per schiacciare Taiwan fino alla rieducazione culturale in corso sui musulmani dell Xinjiang. Ma è funzionale al racconto globale — e intendo — dell’amministrazione di Partito e Stato che Xi ritiene necessario adesso e nel prossimo futuro.

Perché? Per comprenderlo si potrebbe osservare che quasi in parallelo, la riunione dei ministri degli Esteri dei Brics – convocata e presieduta dall’India proprio a latere delle riunione onusiana di New York – ha insistito su concetti simili. Sotto la conduzione del ministro indiano S. Jaishankar  si è parlato di multilateralismo sotto pressione, ma anche della necessità di rafforzare il messaggio di dialogo, rispetto del diritto internazionale e riforma delle istituzioni globali, a partire dal Consiglio di Sicurezza Onu. Riforma questa che i Paesi emergenti stanno chiedendo con sempre maggiore insistenza perché ritengono la struttura non all’altezza del multilateralismo per come lo si dovrebbe intendere adesso e nel futuro, ossia meno occidentecentrico. A ciò consegue anche la difesa del sistema commerciale multilaterale, oggi scosso da protezionismo e volatilità tariffaria, secondo i Brics, e il rilancio della cooperazione tecnologica e innovativa come nuova dimensione della piattaforma — su cui la Cina ha un peso e l’India conta, entrambe nel tentativo di plasmarne le dinamiche.

India e Cina, pur divise da rivalità strategiche profonde, hanno quindi scelto un terreno retorico comune: quello del multilateralismo come risposta all’incertezza globale. Per Pechino, è l’occasione di accreditarsi come potenza stabilizzatrice totale e centrale; per Nuova Delhi, la possibilità di affermarsi nel ruolo di guida e mediazione tra Sud globale e Occidente.

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