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Kyiv e Odessa, ancora una volta. Nella notte tra il 9 e il 10 giugno (cioè stanotte), la Russia ha sferrato un attacco massiccio sull’Ucraina, colpendo infrastrutture civili e militari, seminando terrore e ricordando a tutti che il conflitto in corso non è affatto vicino a una soluzione diplomatica. Anzi, ogni giorno che passa conferma ciò che molti non vogliono ammettere: questa è una guerra durissima, che non finirà con un compromesso politico ma, molto più probabilmente, con un equilibrio innanzitutto creato dalla forza in campo.

I droni e i missili russi si sono abbattuti sulla capitale ucraina e sulla città portuale sul Mar Nero con una violenza che non si vedeva da mesi. Kyiv ha risposto con le solite, eroiche contromisure della difesa aerea, ma il messaggio di Mosca è stato chiaro: la guerra va avanti e colpirà dove fa più male. Soprattutto perché nelle settimane precedenti l’Ucraina aveva dimostrato capacità offensive crescenti.

Pochi giorni fa, infatti, un attacco mirato e molto efficace aveva centrato la base russa di Mozdok, nel Caucaso, danneggiando – secondo fonti di intelligence occidentale – alcuni bombardieri strategici Tu-22M3. Parliamo di aerei potenzialmente in grado di trasportare testate nucleari, strumenti centrali nella strategia di deterrenza e attacco della Russia. Per Mosca, colpire simili asset non è solo una minaccia tattica: è una sfida politica.

E non è un caso isolato. Da mesi l’Ucraina ha moltiplicato le incursioni in profondità nel territorio russo e in Crimea. Colpi chirurgici, ma strategicamente rilevanti. È il caso del ponte di Kerch, infrastruttura chiave che collega la Russia continentale alla Crimea occupata. Un simbolo del controllo russo e un’arteria logistica vitale per i rifornimenti alle truppe di Putin. Colpirlo significa dire che nessun punto del dispositivo russo è davvero al sicuro.

Tutti questi elementi raccontano una verità che tanti fingono di non vedere: la guerra non si sta raffreddando, si sta al contrario intensificando. E in questo contesto parlare di pace, trattative, compromessi diplomatici appare – oggi più che mai – fuori dalla realtà.

Perché il sistema di potere russo non contempla il negoziato. Non è costruito sulla logica della mediazione, ma sulla dinamica dello scontro. Venticinque anni di Vladimir Putin al potere ci dicono questo: Mosca non tratta, combatte. E non si siede a un tavolo di pace sulla base di considerazioni razionali o pressioni diplomatiche. Il Cremlino si siederà solo se costretto, solo se messo con le spalle al muro. Il resto sono sciocchezze, buone per alimentare convegni e salotti, ma prive di qualsiasi fondamento nell’attuale realtà geopolitica.

È vero, Donald Trump – tornato alla guida degli Stati Uniti – ha cercato di cambiare tono. Ha promesso una trattativa veloce e ha spostato su posizioni più neutrali l’atteggiamento della Casa Bianca. Ma al tempo stesso, ha sottoscritto con Zelensky accordi di rilievo: apertura di grandi commesse infrastrutturali, sviluppo congiunto nel settore agricolo e progetti industriali a guida americana, in particolare nelle regioni ucraine lontane dal fronte. Non sono gesti simbolici, ma scelte strategiche.

Trump sta imparando che la soluzione non è vicina. Che l’Ucraina non è disposta ad arrendersi. Che la Russia non vuole cedere. E che questa guerra – come tutte le guerre dure – non si ferma con una conferenza stampa.

La pace non è dietro l’angolo. È lontana, difficile, faticosa. E arriverà solo quando qualcuno – sul campo, non nei comunicati – avrà vinto. Oppure, ipotesi più probabile, se i contendenti avranno esaurito le forze. Ma questo momento si colloca tra “lontano” e “molto lontano”.

La pace in Ucraina è lontana, almeno smettiamo di parlarne a vanvera. Scrive Arditti

La pace non è dietro l’angolo. È lontana, difficile, faticosa. E arriverà solo quando qualcuno – sul campo, non nei comunicati – avrà vinto. Oppure, ipotesi più probabile, se i contendenti avranno esaurito le forze. Ma questo momento si colloca tra “lontano” e “molto lontano”. Il commento di Roberto Arditti

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