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Nel fine settimana, al G7 di Hiroshima, è emersa con forza la volontà di modellare un approccio unitario sulla Cina. Il comunicato finale descrive un quadro politico capace di tenere insieme sensibilità diverse ma farle convergere verso un obiettivo condiviso, basato sul concetto di de-risking proposto da Ursula von der Leyen quest’anno. Non si tratta di danneggiare la Cina e ostacolarne la crescita, si legge nel testo, quanto rafforzare la resilienza economica dei Paesi G7 riducendo il rischio e diversificando i fornitori di prodotti critici.

Questa sintesi di vedute è frutto di un lungo lavoro di allineamento, catalizzato anche dalle grandi crisi degli ultimi anni – tra cui gli impatti del Covid sulle catene di valore e il ricatto energetico di Vladimir Putin contro l’Europa. Questi eventi, insieme alla necessità di portare avanti la transizione ecologica, hanno gettato una luce sempre più sinistra sullo strapotere cinese in tutti i settori green tech. Da qui la consapevolezza che ha avvicinato gli attori G7, Ue e Usa in primis, riguardo alla necessità di “[ridurre] le dipendenze eccessive nelle nostre catene di approvvigionamento critiche”.

Proprio in questi giorni Bruxelles e Washington stanno parlando di come allineare i controlli sugli investimenti verso l’estero, con un occhio verso la Cina, “per evitare che i capitali, le competenze e le conoscenze delle nostre aziende sostengano i progressi tecnologici di rivali strategici in modi che minacciano la nostra sicurezza nazionale”. Queste le parole dell’ultima bozza delle conclusioni della prossima riunione del Consiglio commercio e tecnologia (Ttc) Ue-Usa, in calendario per il 30 e 31 maggio a Lulea, in Svezia.

Bloomberg, che ha visto il testo in anticipo, parla di progressi nel campo della collaborazione sulle tecnologie critiche: semiconduttori (dove si pensa a come evitare una corsa alle sovvenzioni), intelligenza artificiale, informatica quantistica e 6G. In parallelo, e assieme ai Paesi like-minded, Ue e Usa vogliono colpire assieme le politiche e le pratiche non di mercato (leggi: Cina). La bozza parla di “esplorare misure di cooperazione per affrontare tali politiche e i loro effetti distorsivi”, ed entrambi hanno iniziato a mappare la rete di imprese di Paesi terzi che beneficiano di fondi di investimento di proprietà pubblica o controllati dallo Stato, per fronteggiare le eventuali distorsioni.

Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. Specie quando grosse aziende occidentali guardano ancora alla Cina attraverso la lente delle opportunità commerciali, lasciando da parte quella delle implicazioni politiche e strategiche di fare affari con il regime di Xi Jinping. Sono gli sviluppi di cui sopra che fanno risaltare due interviste distinte a due amministratori delegati, Jensen Huang di Nvidia (leader statunitense nella produzione di chip per l’intelligenza artificiale) e Roland Busch di Siemens (azienda tedesca di punta nel settore tecnologico). Parole diverse che si possono riassumere in: tagliare l’accesso al mercato cinese ci farà male.

Il caso di Nvidia è il più evidente, dato che le restrizioni Usa sull’esportazione di chip verso la Cina hanno costretto l’azienda a non vendere più una certa classe di chip ai clienti cinesi. Giusto settimana scorsa, in risposta a quelle misure, Pechino ha deciso di bandire i chip della statunitense Micron dalle proprie infrastrutture critiche. E in un momento in cui Washington investe miliardi per rafforzare la propria industria tech, avverte Huang, le aziende statunitensi rischiano di subire “danni enormi” dall’escalation di questa battaglia. “Se veniamo privati del mercato cinese (che per Nvidia vale un terzo del totale, ndr) non abbiamo alcuna possibilità di farcela. Non c’è un’altra Cina, c’è solo la Cina”, ha detto al Financial Times.

Più esuberante, invece, la linea di Busch, che si staglia contro l’adesione della Germania al comunicato G7 sul de-risking. Al quotidiano britannico l’ad di Siemens ha spiegato che ritirarsi dal mercato cinese –  “fondamentale” per l’innovazione e la crescita dell’azienda e fonte del 13% del suo fatturato – non è un’opzione. Anzi, ha aggiunto, “difenderò la mia quota di mercato e, se possibile, la amplierò”. Il suo ragionamento: “dove posso trovare i clienti che mi spingono verso il prossimo livello di innovazione, che sono esigenti e che cercano la prossima tecnologia? In molti casi, in Cina”.

Da una parte, le parole dei due Ceo evidenziano quanto sarà doloroso per alcune aziende intraprendere la strada del de-risking (e la necessità di sostenerle nel processo). Dall’altra sono una parabola riguardo ai pericoli dell’esposizione economica – quella verso l’esterno – che oggi è al centro dei dialoghi tra partner occidentali. Stando alla bozza del Ttc, Ue e Usa vogliono continuare sul solco tracciato al G7 e rinsaldare le proprie catene di valore, contrastando al contempo le pratiche sleali e distorsive dei Paesi come la Cina. Resta da vedere come la prenderanno le aziende occidentali che possiedono know-how di importanza strategica, ma che non hanno la minima intenzione di lasciare un mercato così attraente.

De-risking dalla Cina, si lavora al Ttc. Ma le aziende…

Con la riunione del Consiglio commercio e tecnologia ormai alle porte, Bruxelles e Washington vogliono allineare i controlli sugli investimenti verso l’estero. Si tratta di espandere la spinta del G7 di Hiroshima. Il primo ostacolo sarà convincere i produttori esposti verso la Cina: ecco cosa hanno detto i ceo di Nvidia e Siemens

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