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Nonostante la considerevole distanza geografica tra le due nazioni, e la forte integrazione tra la Cina e la seconda nel comparto delle commodities – specialmente per il litio –, Stati Uniti e Australia si configurano come partner ideali sulle materie prime critiche, ormai dossier al vaglio delle principali autorità governative a livello globale.

L’Australia è un “gigante minerario”, con piani molto ambiziosi per sfruttare il suo patrimonio geologico: da Paese votato all’export di carbone e metalli non ferrosi, Camberra punta a valorizzare le ampie riserve di materiali critici (tra cui litio, cobalto, terre rare, nickel e rame), espandere le capacità di raffinazione e trasformazione dei minerali in metalli utili alle tecnologie low-carbon (il governo annuncerà nelle prossime settimane una strategia dedicata, oltre ad aver approvato già 50 milioni di dollari per nuovi impianti di processazione) e così incontrare l’enorme crescita della domanda mondiale in ossequio alla transizione energetica.

Washington, al contrario, vede quest’ultima non solo come un’opportunità unica in termini di occupazione e trasformazione industriale – oltre alla spinta verso la decarbonizzazione varata dall’amministrazione Biden, su cui grava lo spettro delle presidenziali 2024 – ma anche nell’ottica di un’eccessiva esposizione a vantaggio della Cina lungo la supply chain. Proprio per questo con il varo del mastodontico Inflation Reduction Act (Ira), gli Usa hanno deciso di puntare su una clean energy economy, attraverso una politica industriale espansiva che incentivi la creazione di filiere industriali e di approvvigionamento alternative a Pechino.

È in questo contesto che va letto l’annuncio del Climate, Critical Minerals and Clean Energy Transformation Compact, attraverso una nota della Casa Bianca. L’accordo, che non rappresenta né un trattato né un memorandum of understanding e che dovrà comunque passare dal vaglio del Congresso americano, è stato anticipato dal primo ministro australiano Anthony Albanese e dal presidente Joe Biden nel solco dell’incontro G7, che sul tema della sicurezza economica oltre alle materie prime ha visto i semiconduttori al centro delle discussioni.

Biden sarebbe intenzionato a garantire alle imprese australiane, attive nel settore militare, lo status speciale di “fornitore domestico” (già assegnato al Canada) secondo il Titolo III del US Defence Production Act (DPA) dispositivo legislativo attivato in passato dall’amministrazione Trump, e poi dal successore democratico, per incentivare la produzione nazionale di materiali strategici. È il caso, per esempio, delle terre rare e dei magneti utilizzati nei dispositivi militari, su cui è verosimile aspettarsi nuovi investimenti del Pentagono nel business minerario australiano. Tra cui, Iluka Resources che sta ultimando un impianto di raffinazione di ossidi di terre rare nell’Australia occidentale (WA) con un prestito da 1.25 miliardi di dollari dal governo australiano. Oltre il 90% del segmento della supply chain è dominato da Pechino.

Inoltre, è previsto un flusso secondario, verso le aziende che operano sul continente australiano, attraverso le prerogative dell’Ira (369 miliardi di dollari per il clean tech). I funzionari australiani e statunitensi, inclusi i rappresentanti delle rispettive agenzie per l’export, proseguiranno il dialogo per affinare i dettagli nel corso del 2023. Si tratta di un accordo “molto, molto positivo” che “dovrebbe mettere in prima linea l’Australia”, secondo l’opinione di Andrew Forrest, miliardario e magnate del settore.

Nuove misure che sembrano placare le preoccupazioni sugli effetti discriminanti dell’Ira sui mercati, con il “rischio” di capital flight “dall’Australia agli Stati Uniti” secondo il Premier Albanese che il Compact andrebbe a mitigare. Resta comunque il fatto che l’Ira rimane pieno di contraddizioni, schiacciato tra l’imperativo della cooperazione internazionale sul tema della mitigazione ai cambiamenti climatici (dunque, su sviluppo e installazione di batterie, impianti eolici e fotovoltaici) e la necessità politica di rimettere gli Usa al centro delle filiere manifatturiere. E’ possibile che le aziende minerarie australiane potranno accedere ad incentivi e sussidi previsti dall’Ira case-by-case, ma resta da capire se l’accesso privilegiato ai fondi federali non le forzi ad escludere progetti greenfield in Australia nell’ottica del ‘Made in America’. Una situazione che accumuna anche le industrie europee.

Nella nota diffusa dalla presidenza, viene specificato che il Compact è stato concepito per coordinare politiche e investimenti a supporto dell’espansione e diversificazione di supply chain per le rinnovabili e per le materie prime critiche che siano “responsabili” – un termine che richiama l’idea alla base del friend-shoring e del club tra nazioni democratiche –, orientate al mercato, capaci di adattarsi alla domanda energetica e alle necessità dell’Indo-Pacifico (regione su cui si focalizza sempre di più la politica estera statunitense, oltre ad essere il focus regionale per la sicurezza con l’Australia nel contesto del Quad) come area cruciale per la crescita economica globale.

Tra i punti chiave, oltre a quelli sopra menzionati, lo sviluppo di “tecnologie per le batterie emergenti” come quelle al sodio o allo stato solido e la creazione di mercati per “l’idrogeno verde e i suoi derivati”. Si tratterebbe di progetti da oltre 100 miliardi di dollari che potrebbero beneficiare dell’Ira, secondo il quotidiano The Australian che riporta un report governativo.

Per raggiungere questi obiettivi, la Casa Bianca annuncia che ci saranno ulteriori incontri a livello industriale, collaborazione su standard-setting, l’adozione di metodologie condivise per il monitoraggio delle emissioni derivanti dai progetti futuri e un continuo studio sulle potenzialità per l’occupazione nelle industrie green. Al fine di coordinare i prossimi passaggi, verrà istituita una Taskforce on Critical Minerals tra i due paesi, guidata dai principali funzionari dell’US National Security Council e del Department of Industry, Science and Resources australiano.

Proprio nell’ottica di convogliare investimenti sinergici in tecnologie e materie prime critiche (molte delle quali dual use) per la sicurezza delle forniture, oltre ad alleggerire la condivisione di tecnologie per la difesa, è il contesto politico dell’Aukus (partnership industriale tra Usa, Gran Bretagna e appunto Australia nel settore della difesa) a spingere per l’idea che il Congresso e l’amministrazione Biden – così come quella futura – possano garantire uno status privilegiato all’Australia e alle sue aziende minerarie tramite l’Ira e il Dpa.

Si tratta, infatti, di due dispositivi legislativi (naturalmente più il secondo) concepiti nella convinzione che industria e sicurezza nazionale vadano, specialmente in un contesto geopolitico di tensioni con la Cina, fortemente a braccetto.

Resta da capire come impatterà l’accordo nella più ampia geografia delle supply chain che vede oggi l’Australia partner commerciale di peso della Cina per l’industria delle batterie.  Negli scorsi anni Tesla, Ford e General Motors hanno infatti stretto accordi con le aziende australiane per le forniture di concentrati di litio, ma nessuna di queste forniture può raggiungere le case automobilistiche senza passare prima dalle raffinerie in Cina. Le nazioni del G7 producono il 30% dei derivati chimici del litio, il 20% del cobalto raffinato e del nickel e solo l’1% della grafite naturale secondo Benchmark Minerals Intelligence.

Resta ancora in alto mare, invece, un accordo con l’Unione europea soprattutto per la natura discriminatoria dell’IRA nel settore dell’energia pulita e delle industrie downstream. È possibile che la fumata bianca non arriverà prima dell’estate.

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