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Quale bilancio si può fare della politica economica del governo Meloni al giro di boa di un anno dalle elezioni del 2022? Mi viene in mente la stanza della prima moglie Rebecca, in cui nessuno – tanto meno la seconda moglie – poteva entrare. La legge di bilancio per il 2023 è stata (almeno per due terzi) un proseguimento – con altri mezzi – delle politiche del precedente governo Draghi. Non poteva essere altrimenti perché la maggioranza di destra entrava in scena senza avere avuto il tempo di metterci del suo, sempre che ne fosse stata capace.

L’Italia è il Paese dei paradossi, Meloni se la è cavata fino ad ora per “non” aver fatto le politiche sulle quali, in teoria, aveva vinto le elezioni. Ma anche questo è un ragionamento infondato, perché anche la campagna elettorale di FdI si era svolta su di una linea diversa da quella che era scritta nei programmi. Eppure, la cosa più stupida che si potrebbe fare (qualcuno nell’opposizione ci prova) sarebbe quella di criticare Giorgia Meloni di incoerenza, ben sapendo che il Paese è sopravvissuto proprio perché il governo è venuto meno ai suoi impegni.

Per fortuna non si è ripetuta l’esperienza del 2018 quando il governo giallo verde volle essere di parola sia negli atteggiamenti verso i partner e le istituzioni europee, sia nelle misure di politica economica adottate (il reddito di cittadinanza e i provvedimenti sulle pensioni) che nel giro di pochi mesi lo costrinsero a scendere dai balconi sui quali era salito con orgogliosa sicurezza. Ma le conseguenze di quelle politiche sono ancora in attesa di una soluzione. Il governo Meloni ha mantenuto la parola per quanto riguarda il superamento e la trasformazione del RdC, ma è ancora nei guai sull’aspetto più critico di quella iniziativa. Tutti ormai riconoscono, persino Giuseppe Conte, che il RdC non era in grado di tenere insieme la lotta alla povertà e un’ambiziosa politica attiva del lavoro, che è tuttora la sfida più difficile ereditata da questo governo.

Per come sono messe le cose Giorgia Meloni rimane vincolata alla doppia funzione originaria di quella prestazione, tanto più che ha scelto di alleggerire quella assistenziale per promuovere quella a sostegno della formazione e dell’impiego. Per non parlare degli effetti del superbonus e altri ammennicoli immobiliari: un altro errore da cui è difficile prendere risolutamente le distanze, in un Paese che ha sempre un’elezione da gestire. Poi, per il governo è arrivato il momento del redde rationem, quando – archiviata la pandemia – a livello dell’Unione si pone l’esigenza di mettere ordine nelle regole finanziarie, sospese per anni per fare fronte all’emergenza e alla sue conseguenze sull’apparato produttivo e il lavoro.

La stessa Bce non è più in grado di acquistare in proprio e à gogò i titoli di Stato allo scopo di finanziare il fabbisogno dei Paesi e di contenere i tassi di interesse sul debito. Lo sconquasso determinato dalla pandemia ha destabilizzato il mercato dell’energia e delle materie prime, prima che intervenisse la spada di Damocle dell’aggressione della Russia alla Ucraina con le sue conseguenze sull’approvvigionamento energetico. È vero che le politiche del governo Draghi hanno consentito di ridurre drasticamente la dipendenza dalle forniture russe, ma la componente energetica ha tuttora un peso significativo sull’inflazione.

Il ministro Giancarlo Giorgetti è stato chiaro da mesi: non ci sono margini per una politica orientata sulla spesa, anche perché non si saprebbe come finanziarla se non attraverso il deficit di bilancio, la cui dimensione deve essere autorizzata da Bruxelles. Con quali regole? Non si sa se saranno le solite o se l’Unione saprà concordarne di nuove. L’Italia insiste per gli stralci a cominciare da quegli “investimenti”, anche se ormai non le crede più nessuno, viste le problematicità con le quali abbiamo gestito il cadeau del finanziamento del Pnrr. Meloni insiste nel promettere che non verrà sprecato neppure un solo euro, ma i dubbi restano, anche perché è sempre più complicato avere un quadro chiaro dell’impiego di quei fondi.

Su questo terreno il governo sconta un errore grave che ha compiuto: quello di demolire la catena di comando costituita da Mario Draghi e di averla sostituita sia a livello della massima responsabilità (Fitto anziché Giorgetti) sia relativamente alle strutture operative. In proposito Meloni non ha avuto la lucidità di confermare, come in altre circostanze, chi aveva da mesi in mano la gestione di un’operazione tanto complessa. Era evidente che ci sarebbe stata una battuta d’arresto, perché anche il funzionario più bravo deve comunque studiare i dossier di cui in precedenza non si occupava e entrare in quella rete di rapporti istituzionali e personali che sono indispensabili per il buon andamento delle cose.

Aspettiamo la Nadef e prepariamoci ad una legge di bilancio che allochi le risorse disponibili nelle priorità della difesa del reddito e dell’occupazione. Capita che, con grande sconforto di Napoleone, tocchi all’Intendenza di stare in prima linea.

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