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Sui nostri media si rincorrono i toni indignati a proposito della posizione del presidente americano Donald Trump e del vicepresidente JD Vance sull’Ucraina: tradimento, disonore, abiura e così via. In genere si tratta di commentatori di centrodestra sostenitori non pentiti di tutte le guerre dell’America degli ultimi trent’anni. Anche commentatori di sinistra si mettono sullo stesso piano perseverando nella rincorsa delle destre e nostalgici dei democratici Usa che non hanno certo lesinato in quanto a bellicismo.

Peccato che nessuno ricordi due elementi.

Il primo vale per la destra: Silvio Berlusconi non fu mai così convinto delle guerre decise dagli americani; partecipò incerto a quella del 2003 (moltissimi parlamentari di Forza Italia erano in piazza a manifestare per la pace, assieme ai pacifisti!) e si oppose a quella contro la Libia ma fu vinto dalla decisione del Quirinale, indebolito com’era politicamente. Anche sui Balcani la destra non fu mai davvero convinta, mentre lo era molto di più il centrosinistra. Ma queste sono storie vecchie: sforzo vano tornarci sopra.

Il secondo elemento vale per tutti: i commentatori “delusi” si dimenticano dell’Afghanistan di Joe Biden. Fu una vergognosa ritirata e un tradimento accertato per milioni di afgani che avevano creduto nell’Occidente. C’è ancora chi cerca di farne uscire il più possibile dalla gabbia che è diventato il loro Paese.

Esiste un antico detto in politica estera che è tornato a circolare in queste settimane in Europa: “Essere nemici degli americani è pericoloso, essere alleati è fatale”. In altre parole: chi si illude è un ingenuo o un ideologo ed è meglio che non si occupi di politica estera. Gli Stati Uniti perseguono da sempre il proprio interesse nazionale e non c’è da scandalizzarsi se talvolta (in realtà quasi sempre) tale interesse non coincida con quello europeo. Non si tratta di “tradimento dei propri valori” ma di letture diverse del quadro geopolitico: gli Usa ragionano da impero e hanno ben altre gatte da pelare rispetto ai timorosi europei che parlano forte nascosti sotto l’ombrello statunitense. Tutto questo è finito per sempre. Meglio non scandalizzarsi né offendersi ma riflettere piuttosto sul da farsi come europei e come italiani.

Detto a margine: non siamo noi europei che possiamo dire agli americani come debbano essere o cosa debbano pensare o come debbano interpretare la propria potenza, sarebbe vera arroganza tenuto conto che nemmeno riusciamo ancora a capire quale sia il nostro di interesse nazionale o europeo.

Come risposta pragmatica per l’Europa in primis c’è la ricetta Draghi che ora prende più forza (a Bruxelles l’avevano quasi cestinata): grandi investimenti in ricerca, tecnologia e difesa, utilizzando il debito comune. Si tratta di un’azione comune ed unitaria che potrebbe avere molto impatto. Siamo stati troppo timidi e troppo concentrati sulle regole di bilancio. Spiace dirlo ai rigoristi e filo-austerità nostrani: gli Stati Uniti sono superpotenti malgrado (ma forse grazie a) un debito enorme e l’Europa deve fare lo stesso, non ha più scelta.

In secundis c’è la politica. Qui le sinistre europee compiono il solito errore: la trita retorica sull’unità europea. In politica tutto è possibile se si è creativi e financo spregiudicati.

Di conseguenza, le iniziative autonome di uno o più Stati membri non solo sono benvenute ma sono sempre state all’ordine del giorno. Cos’è il “formato Weimar” (Francia Germania e Polonia) se non questo? Poi eventualmente si allarga, com’è il caso dello stesso formato. Servono iniziative intergovernative dinamiche. Convocare improvvisamente il vertice di Parigi può irritare (non tutti sono stati sentiti prima) ma esprime la necessità di un certo nervosismo: reagire cioè rapidamente alla sfida.

In questo senso, alla sua maniera, l’Italia e il governo di Giorgia Meloni devono provare a fare la loro parte in maniera indipendente, intraprendendo la strada di una mediazione possibile tra Europa e Stati Uniti. Forse il vertice dovevamo proporlo noi ma comunque abbiamo molte altre possibilità: il duello tra l’amministrazione Trump e l’Unione europea è appena iniziato.

Non ci si deve nemmeno offendere se non si è invitati subito al tavolo Stati Uniti-Russia: meglio lasciare i due imperi scornarsi inizialmente tra di loro per poi intervenire con lungimiranza in appoggio a Kyiv secondo gli interessi europei. Non sarà tanto facile per Trump trattare con il presidente russo Vladimir Putin che chiederà molto. Trump cercherà di dare in cambio ciò che non possiede (lo fa sempre) e solo a quel punto iniziano i veri negoziati tra Stati Uniti e Unione europea.

Come pretendere dagli ucraini le terre rare se i russi restano così vicini? Lo spazio di garanzia chiesto dai russi vale per entrambi. Quale inclusione della ricostruzione ucraina nel quadro finanziario globale? Che ruolo per i fondi di investimento (attivi e passivi) e per le grandi banche euro-americane? Come reintegrare e a che ritmo la Russia nel sistema finanziario mondiale? Sono tutte domande in cui c’è bisogno dell’Europa altrimenti non si fa nulla. Per gli americani patteggiare con europei ostili e/o delusi non sarebbe per niente facile.

Anche Mosca sa che l’obiettivo americano è di andarsene militarmente dall’Europa e che quindi dovrà a sua volta rinegoziare le sue garanzie con gli europei. Questi ultimi dovranno smettere di comportarsi istericamente con Mosca perché si tratta di una potenza nucleare che non si può battere.

Infine, c’è da iniziare a fare vera comunicazione – anche un po’ aggressiva – invece che stare sempre a lamentarsi dei deep fake russi. Per esempio, l’incontro tra Vance e l’Alternative für Deutschland dovrebbe essere messo in rilievo come un affronto ai 100.000 soldati americani uccisi sul fronte occidentale durante la Seconda guerra mondiale. Altroché D Day: Vance con il suo incontro ha offeso milioni di anziani veterani. Occorre che il pubblico americano sappia, magari per mezzo dei media britannici.

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