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Non so se e quanto il referto della Corte dei Conti abbia smosso le acque in materia di politica, programmi e misure per la sanità. Tuttavia, per il settore le ore più buie non sono terminate con l’affievolirsi (pare) della pandemia. Non solo in Italia, ma in tutti i Paesi a reddito medio-alto (diciamo l’Ocse) arrivano adesso.

Nel nostro Paese, il problema è aggravato dalla mancanza di risorse umane e finanziarie causate da una politica di riduzioni e restrizioni alla spesa durata un decennio, ma, anche se è difficile trovare statistiche omogenee in questi campi, in quasi tutta l’area Ocse si è alle prese con una riduzione della produttività, ossia dell’efficienza con la quale le risorse, soprattutto quelle umane (medici, paramedici, infermieri, personale socio sanitario) vengono allocate e gestite.

L’Economist Intelligence Unit ha fornito in questi giorni ai propri abbonati un’analisi condotta in sei Paesi. Questa indagine ed un lavoro analitico di Diane Coyle di Cambridge University non solo lo confermano ma indicano che la determinante principale è la stanchezza del personale dopo tre anni di Covid specialmente perché ha dovuto (e deve ancora) destinare tempo e sforzi a compiti impropri introdotti con vari protocolli mirati a contrastare la pandemia. La rivista Mayo Clinic Proceedings sottolinea che se i lavoratori della sanità sono esausti (anche a ragione dei compiti impropri loro affidati) e, quindi, riescono a fare meno delle attività per cui sono stati formati, ad esempio fare tardi per completare il registro dei pazienti od occuparsi di pazienti di un collega.

A ciò si aggiunge la corsa a scelte non funzionali, quali – rileva la rivista Health Policy – la priorità data alla costruzione di reparti Covid, trascurando l’aumento dei letti per la terapia intensiva. Ciò riguarda anche i Paesi a più alto reddito: in Svizzera and in Germania ci sono ora meno letti disponibili per terapia intensiva di quanti ce ne fossero prima della pandemia. Inoltre, unicamente ora si possono cominciare a tirare le somme di uno dei maggiori danni collaterali della pandemia: i ritardi nelle diagnosi e cure oncologiche.

L’Italia e gli Stati Uniti sono i Paesi in cui, sulla base dei dati disponibili, il fenomeno ha assunto la forma più grave, ma esso riguarda tutta l’area Ocse. Una ricerca delle Università di Warwick e di Cambridge conclude che nel Regno Unito che per ogni trenta decessi per Covid c’è un decesso addizionale per «la riduzione della qualità dell’assistenza medica in generale dovuta alla pandemia». Nell’oncologia il problema è più noto, ma esso riguarda tutta la sanità.

Di grande rilievo nel cardiovascolare: in Gran Bretagna, perché arrivasse un ambulanza per un ictus, un attacco di cuore, un’ischemia seria si dovevano aspettare mediamente 20 minuti, mentre ora ci vuole un’ora e mezza- un ritardo che spesso è fatale. Nella piccola e ricchissima Singapore, in un policlinico, i nuovi pazienti aspettavano, alla fine del 2021, in media nove ore prima di essere visitati, diagnosticati ed inviati ad un reparto: ora ce ne vogliono tredici.

Si potrebbe andare oltre, citando altri studi ed altre esperienze. Il danno più grave è che le disfunzioni hanno provocato una caduta della fiducia dei cittadini della capacità dello Stato a dare la priorità al primo, e più fondante, bene pubblico: la salute.
Per ricostruirla, è ora necessario in Italia non solo fornire maggiore risorse ma anche risolvere problemi che si trascinano da anni come quello della sanità territoriale, ossia dei medici di base, o medici di famiglia, il cui rapporto, regolato da convenzioni, è quanto meno fonte di continui equivoci. Si vada almeno ad un contratto di lavoro part-time con il Servizio Sanitario. Il ministro Schillaci dia un colpo. Che si senta bene.

Perché le ore più buie della sanità arrivano adesso. Scrive Pennisi

Per ricostruire la sanità in Italia è ora necessario non solo fornire maggiori risorse, ma anche risolvere problemi che si trascinano da anni come quello della sanità territoriale, ossia dei medici di base, o medici di famiglia, il cui rapporto, regolato da convenzioni, è quanto meno fonte di continui equivoci. Il commento di Giuseppe Pennisi

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