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Nessun governo della Repubblica ha mai avuto vita facile. E anche i governi antecedenti alla dittatura mussoliniana hanno sempre navigato tra Scilla e Cariddi. A partire dall’Unità d’Italia (1861) tutti i governi, compreso l’esecutivo fascista, sono caduti più per le loro beghe e spaccature interne che per l’offensiva esterna da parte delle opposizioni. Persino Alcide De Gasperi (1881-1954), di gran lunga il più prestigioso leader del secondo dopoguerra, ha dovuto sudare più di Maciste per tenere unita una coalizione, quella centrista, che pure sulla carta, cioè sul piano dei numeri parlamentari, era a prova di qualsiasi imboscata. Bastava un nonnulla, un raffreddore correntizio Dc o il malumore di un socio di maggioranza, per mandare in tilt la squadra di colui che ricostruì lo Stivale. Infatti, De Gasperi capitanerà sette formazioni ministeriali, in media una ogni anno. Troppo poco per uno statista a caccia di stabilità politica per il suo Belpaese. Non a caso, De Gasperi non risparmierà sforzi ed energie per dotare lo Stivale di un corredo di regole in grado di assicurare la governabilità in ogni legislatura. La cosiddetta legge truffa (1953), da lui propugnata, che tutto era tranne che una truffa, puntava a rafforzare, assegnandole i due terzi della rappresentanza parlamentare, l’alleanza elettorale che avesse ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. Il tentativo degasperiano non riuscì per un pugno di schede e l’Italia fu condannata all’instabilità cronica permanente, anche se mitigata dal fatto che continueranno a ruotare soltanto i ministri, in una giostra di nomi e formule sempre in funzione, non già gli schieramenti.

Ma può il presidente del Consiglio di uno tra i più ricchi Paesi del globo trascorrere le giornate più a evitare gli sgambetti pensati dagli alleati, più a schivare le trappole preparate dagli amici, che a fronteggiare le critiche e le bordate mosse e promosse dalle opposizioni? Può il presidente del Consiglio di una nazione, le cui decisioni non devono essere frutto di compromessi estenuanti, spesso al ribasso, perdere ore e ore al dì per mediare tra le varie anime dell’esecutivo e per non cadere al primo intralcio sulla strada?

Finora nessun presidente del Consiglio è riuscito a scansare queste forche caudine interne all’alleanza di governo, pressoché fisiologiche ed inevitabili in un sistema politico fondato sulla rappresentatività, non sulla governabilità. La stessa Giorgia Meloni, nonostante disponga di una maggioranza parlamentare di tutto rispetto e possa contare su un’opposizione tuttora più frastornata e sorda di una campana, si sta rendendo conto che la coesione interna del centrodestra è più un desiderio che un dato di fatto. Anche per questa ragione, forse, lei sta intensificando il pressing per la trasformazione, in senso presidenziale, del modello costituzionale italico. Solo che il modello presidenziale non elimina i rischi di ingovernabilità: è sufficiente che il Capo dello Stato e la maggioranza di governo siano espressione di due colori diversi, per prendere atto che stabilità e governabilità non si possono pianificare a tavolino, anche se, in tal senso, si dovessero cimentare i migliori ingegneri costituzionali in circolazione.

Oggi non sono di poco momento i punti dell’Agenda Meloni suscettibili di provocare più di un falò nel centrodestra e, quindi, nel governo. Giustizia, riforme istituzionali, Ucraina, Europa, previdenza, energia eccetera, anche la presidente Meloni – come i suoi predecessori – deve fare i salti mortali per avvicinare posizioni distinte e distanti, e tutto ciò perché l’inquilino di Palazzo Chigi è solo e sempre un presidente del consiglio, un primus inter pares, giammai un capo del governo, un premier, un primus super pares.

Ecco perché più e meglio di un’innovazione di tipo presidenziale, all’Italia farebbe comodo una riforma che introducesse la figura del primo ministro all’inglese o del capo di governo alla tedesca, senza dover così ricorrere, si capisce, al suffragio popolare diretto per legittimare i più larghi poteri del timoniere chigiano. Sarebbe sufficiente prendere esempio da Londra o da Berlino, che esaltano la funzione del primo ministro senza, per questo, rinunciare alla flessibilità necessaria a un sistema politico che non voglia rischiare la paralisi di fronte al primo scoglio inaggirabile. Sì, perché – come insegnava la buonanima di Giovanni Sartori (1924-2017) -, la stabilità di governo è un valore, ma anche la flessibilità lo è. Traduzione: il processo decisionale dev’essere in grado di correggersi, di parare i colpi, in corso d’opera, per il bene della Repubblica, senza farsi imprigionare nella gabbia della rigidità. Accade in Gran Bretagna, vedi gli ultimi cambi di residenti al numero 10 di Downing Street, è accaduto per la titolarità del cancelleriato tedesco.

I sondaggi premiano Giorgia Meloni. I numeri in aula le assicurano un buon margine di sicurezza. Ma, nonostante tutto, giorno dopo giorno tendono ad aumentare i mal di pancia nella maggioranza, sulla falsariga di quanto avveniva l’altro ieri in tutte le coalizioni. E siccome, a lungo andare, i mal di pancia non fanno bene alle alleanze, la soluzione più rapida, e forse anche più saggia, sarebbe quella di accelerare le tappe per il premierato. Non si scatenerebbe lo scontro che inevitabilmente esploderebbe sul presidenzialismo o sul primo ministro eletto dal popolo, e la formazione di governo si rivelerebbe assai più coesa e amalgamata, sotto la guida di un premier non più sùbito logorato dalla prospettiva del mediazionismo a tempo indeterminato.

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