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Non sarà una passeggiata, nel centrodestra, lo scambio tra le due bandierine identitarie: presidenzialismo (must di Fratelli d’Italia) e autonomia regionale differenziata (obiettivo della Lega). Non è da escludere che il baratto dia la stura a uno scontro che, alla fine, blocchi i due progetti, non foss’altro perché le due materie (assetto dello stato centrale e ridefinizione dei poteri periferici) sono così incandescenti da poter provocare più ustioni di un Capodanno di bombe.

Ma le perplessità sulle due riforme non derivano solo da valutazioni, diciamo, di opportunità politica. A non convincere è innanzitutto il merito delle proposte.

Soffermiamoci sul presidenzialismo. Il grande pensatore liberale francese Raymond Aron (1905-1983), che pure non era un bolscevico né era un tifoso della democrazia assembleare, nutriva più di un dubbio sull’efficacia, al di fuori degli Stati Uniti, del modello presidenziale yankee. Perché? Perché, argomentava il politologo, negli Stati Uniti i due partiti non contemplano la disciplina interna, caratteristica che rende flessibile il sistema consentendo all’inquilino della Casa Bianca di governare anche senza disporre di una maggioranza parlamentare. Del resto, i due partiti principali, negli Usa, non hanno un leader chiaro e riconosciuto, votato dagli iscritti, e regista delle battaglie o delle iniziative politiche quotidiane. I partiti Usa sono essenzialmente comitati elettorali, club che si ritrovano periodicamente per organizzare le primarie da cui spunterà il nome del candidato alla presidenza.

Tutt’altra musica si suona e si ascolta in Europa, in Italia in particolare, da sempre. Qui, nonostante le ultime evoluzioni-declinazioni, i partiti risentono ancora del vecchio impianto novecentesco, fondato sulla disciplina interna, sul peso preponderante dei leader (basti pensare che possono scegliere solo loro candidati ed eletti) e spesso anche dei relativi capicorrente. Che cosa accadrebbe se il (futuro) Capo dello Stato non fosse sostenuto da una coalizione parlamentare maggioritaria? Si renderebbe inevitabile una coabitazione. Ma già le alleanze tra partiti affini sovente sfociano in atti di conflittualità permanente che rendono i governi italiani più traballanti di un tavolo a due gambe, figurarsi lo scenario di un presidente della Repubblica di un colore e di un parlamento di segno opposto.

Qualcosa di simile è accaduto in Francia, sia con la presidenza Chirac sia, in tono minore, con la seconda presidenza Macron. Quest’ultimo è riuscito, per un soffio, a non farsi imporre il suo primo ministro da una maggioranza diversa da quella che, grazie al voto popolare, lo ha riconfermato all’Eliseo. Ma anche in Francia, dove il semipresidenzialismo – ossia con la figura del primo ministro accanto a quella del capo dello stato – avrebbe dovuto limitare gli inconvenienti provocati dalla rigidità politico-parlamentare ignota negli Usa, il bilancio non è per nulla rassicurante. Se Presidente della Repubblica e primo ministro provengono dalla stessa area, la governabilità è garantita. Se, viceversa provengono da fronti opposti, l’instabilità è la regola, e l’incubo della paralisi accompagna o precede ogni decisione, proprio perché i partiti americani sono “indisciplinati” mentre i partiti francesi, simili a quelli italiani, sono “disciplinati”. Cioè poco flessibili. Né si potrebbe aggirare l’ostacolo contando sulla secolare predisposizione italica al trasformismo, ossia al provvidenziale soccorso di politicamente o materialmente premiati per il cambio di casacca. Sarebbe la ratifica della politica intesa come esclusivo mercato di voti parlamentari, peggio del voto di scambio punito dalla legge che regola le competizioni elettorali. Insomma, non sarebbe il caso di aggiungere problemi a problemi, immoralità a immoralità, tentazioni di opportunismo a un andazzo che già è compromesso di suo, alla luce delle seduzioni spesso irresistibili del potere.

E poi. Che garanzie di stabilità potrebbe fornire un sistema, come quello francese, in cui una volta (quando è sostenuto dalla propria coalizione) il capo dello stato somiglia al padrone assoluto del Paese, e una volta (quando non ha al fianco una maggioranza parlamentare) deve concordare col suo primo ministro, impostogli dai vincitori delle elezioni, ogni suo minimo passo o ogni sua ordinaria telefonata. Qualcuno potrebbe notare che i poteri a fisarmonica non sono un’anomalia, si verificano in ogni dove. Va bene. Senza esagerare, però. Lo stesso primo ministro alla francese in un periodo evoca la figura del segretario particolare del presidentissimo, in un altro periodo assurge al rango di diarca della Repubblica, e le diarchie, si sa, non sono mai foriere di buone stagioni. Hanno fatto eccezione i due consoli dell’antica Roma, considerati esempi di soddisfacente convivenza. Ma, allora, non vi erano giornali, tv e social a raccontare la verità dei fatti.

Non convince nemmeno la variante dell’elezione diretta del capo del governo, la cui legittimazione popolare lo collocherebbe, naturalmente, in una posizione di supremazia rispetto alla figura di garanzia del capo dello stato eletto da Camera e Senato. Conseguenze: cortocircuito istituzionale assicurato e buonanotte normalità. Non a caso l’investitura popolare del primo ministro è una rarità mondiale. Persino Israele ha dovuto arrendersi all’evidenza: non funziona.

Conclusione. Il Paese ha bisogno di riforme istituzionali, economiche e giuridiche. Il presidenzialismo centrale, cui si aggiungerebbe, qualora fosse introdotta l’autonomia differenziata, il presidenzialismo spinto nelle Regioni, non sembra la soluzione ideale. Un conto è rafforzare i poteri del premier e del governo in una cornice parlamentare, un conto è creare le premesse per nuove slabbrature nel Paese. Attenzione, perciò, allo scambio, se mai si farà, tra presidenzialismo e autonomia differenziata: potrebbe rivelarsi una miscela esplosiva.
Senza dimenticare che i dubbi manifestati sul presidenzialismo da un fuoriclasse del pensiero politico come Aron restano tuttora validi.

Presidenzialismo e autonomia, rischio di miscela esplosiva. Scrive De Tomaso

Il Paese ha bisogno di riforme istituzionali, economiche e giuridiche. Il presidenzialismo centrale, cui si aggiungerebbe, qualora fosse introdotta l’autonomia differenziata, il presidenzialismo spinto nelle Regioni, non sembra la soluzione ideale. L’opinione di Giuseppe De Tomaso

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