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Serena Andreotti, ultimogenita di Giulio e Livia, spiega che aver publicato le lettere spedite dal padre alla moglie tra il 1946 e il 1970 (“Cara Liviuccia, lettere alla moglie” nella collana Ritagli diretta da Massimo Franco con prefazione di Giuseppe De Rita, edizioni Solferino) risponde all’esigenza di dare un’immagine vera ed equilibrata di Giulio Andreotti, “troppo spesso e specialmente dopo la morte”, butterata da valutazioni negative. “Spero che tutti questi nostri sforzi – sussurrra Serena – aiutino a mostrare la vera dimensione pubblica e privata di mio padre”.

Dal libro-carteggio, infatti, emerge la figura di un uomo dolce e teneramente innamorato della moglie, capace di usare l’ironia per stemperare dissapori e conflitti, sollecito nel rifugiarsi e celebrare una coppia nella quale si è ritrovato per una vita intera: “Livia per me è stata tutto”, scrive. È la più bella dichiarazione che un uomo possa fare a chi gli è vissuto accanto.

Dottoressa Andreotti, perché questo libro? Perché aver voluto raccontare la vita privata di un leader che ha segnato la storia del Paese?

Sono i ricordi di una famiglia. Mamma che scalpitava perché babbo era lontano in una famiglia piena di nonni, altri parenti e amici. La nostra casa di vacanza era sempre piena di gente! Ma comunque con questa molto sentita presenza-assenza di mio padre. Nelle estati noi eravamo distanti e lui rimaneva a Roma per lavorare: quando veniva era una festa. Sia mia madre che mio padre ci hanno fatto vivere una infanzia veramente felice.

Qual è suo avviso il principale valore che la coppia Giulio-Livia ha trasmesso ai suoi figli?

Direi soprattutto la serietà. L’importanza di studiare, di essere preparati. Mamma era fin troppo esigente da questo punto di vista. Ci hanno trasmesso con forza l’idea che uno doveva meritarsi ciò che aveva ricevuto, non considerare il benessere un fatto dovuto. Bisognava spendere bene i talenti che il Signore ci aveva dato.

Ho letto che un bel po’ di queste lettere erano scomparse e poi sono state ritrovate in un mercatino e consegnate a voi. Non è che per far publicare questo libro ci ha messo lo zampino la Divina Provvidenza?

In effetti è stata una cosa misteriosa. Non so se la Divina Provvidenza ma a qualcuno di certo lo zampino e ce l’ha messo… Come le lettere siano uscite da casa e come siano ritornate è una cosa strana. E io adesso ne mercatini vado sempre a guardare: hai visto mai…

Già, le strade del Signore sono infinite… Veniamo al contenuto del libro. Liviuccia e tante altre espressioni affettuose, d’amore, punteggiano le lettere. Un epistolario minuzioso e pieno di tenerezze. “Livia è stata tutto”, scrive Andreotti ad un certo punto. Davvero è andata così? Una coppia da Mulino Bianco?

Per nulla. Niente è più distante da noi di quella dimensione. Noi figli abbiamo sempre avuto chiara l’intensità del rapporto che legava mia madre a mio padre. Un rapporto che andava al di sopra di tutto, il loro legame era assoluto. Dell’uno in funzione dell’altra e viceversa. È stato così sempre, fino agli ultimissimi giorni. Un amore vero fuori dai sentimentalismi.

Ecco, ad un certo punto suo padre dice che gli sarebbe piaciuto rannicchiarsi in seno alla famiglia. Ma lei ce lo vede Andreotti che rinuncia alla politica?

Infatti non s’è mai rannicchiato. C’è stato un momento in cui diceva cha a sessant’anni si sarebbe ritirato. Dopo un po’ sono diventati sessantacinque. Poi settanta. E poi non se n’è parlato più. Oltre alla dimensione familiare, diciamo privata, ciò che dalle lettere emerge è che il suo lavoro gli piaceva tantissimo. Rinunciare al lavoro, non al potere si badi, era una cosa più forte di lui.

E poi le lettere sono piene delle frasi che si dicono tra tutti i mariti e tutte le mogli; con i primi che sono distanti e chiedono il permesso alle mogli lontane di fare o no una certa cosa. Non per controllo ma per mantenere la sintonia. Così Giulio dice a Livia: “Se non vuoi che vada a cena con gli amici resto a casa”. Oppure invitato ad una festa politica “Se non vuoi che balli non ci vado…”.

Sì come tutti i mariti che però poi fanno come gli pare… Non c’è mai stato problema. Mio padre non aveva alcuna dimensione mondana com’è noto. Gli amici erano quelli di sempre, davvero quattro amici al bar, i medesimi che peraltro mia madre conosceva benissimo. Erano cose che mio padre scriveva in una dimensione di condivisione anche delle minuzie. Il loro rapporto era così.

In una lettera del 28 agosto 1961, suo padre scrive a Livia: “Dei tanti privilegi che ho avuto, quello di scriverti quotidianamente è quello che mi fa più piacere”. Significa che la dimensione epistolare era la connessione sentimentale tra i suoi genitori…

Sì, era proprio così. A mio padre qualsiasi pensiero, qualunque sentimento gli veniva più normale scriverlo che dirlo a parole. Era il loro modo di comunicare. Peccato non ci siano, siano andate perdute o forse stanno anche loro in qualche mercatino, le lettere di risposta di mia madre a lui.

Però è impossibile dimenticare la dimensione politica di Andreotti. In una lettera del 30 luglio 1966, dopo i mondiali di calcio in GranBretagna, per la finale tra gli inglesi e i tedeschi suo padre scrive che anche quello era un modo per svelenire i rapporti tra i due Paesi. E, nel solco dell’insegnamento e dell’opera di Alcide De Gasperi, si chiede: riusciremo a svelenire anche le generazioni future? Riusciremo a trasmettere ai giovani l’importanza della costruzione europea? Visti i tempi attuali, non sembra un auspicio avverato… 

È una dimensione che purtroppo si è persa. Si è perso l’ideale europeo come unità politica e non solo come fatto economico. A quella generazione quell’ideale era caro perché avevano vissuto i lutti e le devastazioni della guerra. In tutta l’attività politica di mio padre l’inclinazione europeista e la ricerca della pace sono stati i sentimenti prevalenti. Nella politica estera e non solo. Anche nell’attività interna: cercare di evitare gli scontri, smussare le asperità sono stati tratti caratteristici del suo agire.

Concludiamo tornando al libro. L’ironia di Giulio Andreotti era leggendaria, ha contribuito a costruire il suo personaggio. Però davvero colpisce il fatto che nelle prime lettere, quelle del 1946-48, Andreotti scrive veri e propri stornelli di stampo romanesco, molti per prendere in giro la suocera altri per dileggiare con arguzia e bonariamente, amici e colleghi. Ma poi quegli stornelli li cantava una volta che si ricongiungeva con voi?

Vero, se la prendeva con la nonna, povera… È una dimensione che in famiglia abbiamo sempre avuto. Le ironie, le prese in giro, le burle: erano nel Dna di mio padre. Ereditata non so da chi. Da sua madre, nonna Rosa, certamente no. Ma mio padre questo sdrammatizzare, ironizzare, prendere in giro ce l’aveva proprio nel sangue. Come pure il vezzo di affibbiare soprannomi: mia sorella la chiamava Duse perché tendeva, diciamo così, al drammatico… Idem con me. Quando avevo avevo cinque-sei anni a volte mettevo il broncio come tutti i bambini sbuffando e gonfiando le guance.  E allora presero a chiamarmi Lumumba (ex presidente del Congo, ndr). Una cosa razzista? Bonariamente, forse sì. Ma mio padre era così.

Però per lei aveva un debole e scrive che le comprava i vestitini per le bambole…

Guardi, mio padre mi ha viziata sempre, fino alla fine. Qualsiasi cosa desiderassi, puf già c’era. Era meraviglioso lui. E meravigliosa anche mia madre.

Giulio privato. Le lettere alla moglie raccontate da Serena Andreotti

“Cara Liviuccia, lettere alla moglie” (Solferino), verrà presentato il primo ottobre al Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro, alle ore 11.00. Il libro, a cura di Stefano e Serena Andreotti raccoglie le lettere inviate dal padre, Giulio, alla madre, Livia. “Sono i ricordi di una famiglia”, spiega la co-curatrice in una conversazione con Formiche.net

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