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Febbraio. Siamo a un anno dall’inizio della “operazione speciale” di Vladimir Putin verso l’Ucraina. Per i russi si tratta di un mese altamente simbolico, all’inizio del quale nel 1943 ottennero la resa dell’armata del generale tedesco Von Paulus, che era stato molto vicino al successo. Rileggendo la storia di quella campagna, è possibile trovare alcune analogie.

L’area dei combattimenti, innanzitutto, altro non è se non parte di quella stessa Ucraina, dove, dal 2014, è ripreso a scorrere il sangue. Sulla nostra stampa, forse perché la toponomastica locale è in parte cambiata, oggi pochi ricordano che negli stessi luoghi contro l’Unione Sovietica (Urss) allora combattevano anche migliaia di soldati italiani. La seconda analogia vede l’esercito sovietico risaltare non tanto per la qualità dei mezzi ma per una preponderanza numerica che, gettata nella mischia a ondate di coscritti poco armati e peggio addestrati, allora finì per prevalere. La terza analogia riguarda, invece, la scarsa fiducia di Stalin nei propri capi militari, il che già allora si era tradotto in un’incredibile girandola di generali. Fino ad arrivare all’individuazione di chi, con spietatezza e perdite enormi, era stato in grado di portare alla vittoria truppe armate di grande coraggio, seppur attraverso un sacrificio estremo. Si potrebbe continuare con le analogie ma è bene fermarsi qui, per evitare premature estrapolazioni sull’esito dell’attuale conflitto.

Inoltre, va tenuto in considerazione il fatto che gli occidentali, italiani compresi, da allora sono cambiati molto più del popolo russo: noi siamo diventati in buona misura globalisti, loro rimangono tuttora patriottici. Questo finalmente ci porta ad alcune “lezioni apprese” di carattere generale, ma valide anche per l’Italia. La prima, a mio avviso, è che bisognerebbe ri-studiare la storia. Per evitare così valutazioni che rispondano soltanto ai criteri logici che oggi ci sembrano validi, e tengano invece in considerazione anche le lezioni del passato. Ciò che appare ovvio a noi, può non apparire tale a chi appartiene a un differente background culturale, professa una diversa religione o vive in altre parti del mondo.

Parlare di territorio ci porta a mettere in campo vecchie teorie geopolitiche, svalutate dopo i disastri del pangermanesimo del tedesco Karl Haushofer, che non si differenzia molto dal panslavismo ancora latente. Se è vero che la cultura dei popoli, e quindi il loro atteggiamento, è diretta funzione della geografia dei territori abitati, allora non limitiamoci a Haushofer, ma ricordiamoci anche del britannico Halford John Mackinder, dell’americano Nicholas John Spykman e dell’ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan (Indo-Pacifico). È tutto correlato. Ecco, quindi, la seconda lezione appresa: dopo la storia è bene ri-studiare anche la geopolitica che, come strumento di previsione, potrebbe essere utile al nostro Paese.

Considerato quanto detto in precedenza, si potrebbe concludere che l’Italia abbia appreso almeno quattro lezioni. La prima: finalmente ci rendiamo conto di aver troppo a lungo abboccato all’amo di argomentazioni eco-ideologiche di assertività similtalebana. Ciò ci ha in parte impedito, e ancora ci vorrebbe impedire, di estrarre e utilizzare le nostre risorse energetiche che, sia pure non in abbondanza, esistono e sono ben localizzate. La seconda: solo ora ci accorgiamo di non aver diversificato le fonti di approvvigionamento esterne, ma finalmente stiamo provvedendo. La terza lezione: siamo stati espropriati delle nostre tradizionali relazioni in Nord Africa, grazie a una continua erosione da parte dei cugini d’oltralpe e di un nuovo sultano, da considerarsi alleato ma non amico. Ma, anche qui, il governo si è attivato e stiamo recuperando. La quarta è di carattere industriale e militare: le “scorte intangibili” vanno rinnovate con materiali allo stato dell’arte. Sembra cosa ovvia ma, sinora, solo i ministri Guerini e Crosetto se ne sono davvero occupati.

C’è poi un’ultima convinzione da sfatare: “Putin non userà mai l’atomica perché tutto il mondo è contrario”. Ciò potrebbe essere non del tutto vero. In tal caso verrebbe distrutta (con replica verso la Russia) qualche città occidentale, magari le capitali, in Europa e negli Usa. Ma Africa, Cina, India, Sudamerica, Paesi islamici e numerosi territori dell’Indo-Pacifico resterebbero indenni. Insieme, le popolazioni che vivono in queste aree rappresentano i tre quarti, o più, della popolazione mondiale. Siamo così certi che, pur avendo in buona parte votato contro la “operazione speciale” di Putin all’Assemblea delle Nazioni Unite, tutti questi Paesi guardino verso occidente con stima, affetto e riconoscenza? Su questo, ci sono seri dubbi.

Articolo apparso sul numero 141 della rivista Airpress

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