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Non era mai successo finora che un ufficiale di alto rango statunitense parlasse apertamente di un potenziale piano davanti a un attacco cinese a Taiwan, e invece il comandante delle forze statunitensi in Corea del Sud (Usfk), il generale Paul LaCamera, mercoledì ha menzionato la possibilità di un “piano di emergenza” per far fronte alle minacce di Pechino.

Intervenendo a un simposio ospitato dall’Istituto per gli studi coreano-americani (Icas), LaCamera ha fatto capire che esistono discussioni sulla possibilità che gli Stati Uniti sostengano Taipei davanti a un’invasione cinese. E dunque, quelle uscite del presidente Joe Biden sul tema – l’ultima pochi giorni fa, durante un’intervista alla CBS – assumono ancora più volume.

LaCamera ha sottolineato l’importanza di “trarre lezioni dall’invasione russa dell’Ucraina” – che sta andando male al punto che il Cremlino ha chiesto una parziale mobilitazione per far fronte alle perdite e all’arretramento del fronte. Kiev ha ottenuto risultati grazie al proprio valore e al valore delle forniture di armi occidentali e non solo inviate da Stati Uniti e alleati. Gli alleati, appunto: e nel caso di un attacco cinese a Taiwan?

Qui c’è un aspetto che rende ulteriormente interessante ciò che ha detto LaCamera: alla domanda su un eventuale ruolo militare della Corea del Sud nella difesa di Taiwan, il generale ha ricordato che Seul ha inviato truppe per combattere a fianco delle forze statunitensi in Vietnam, Iraq e Afghanistan. E poi ha aggiunto che l’alleanza tra Stati Uniti e Corea del Sud non si limita a resistere all’aggressione della Corea del Nord: un aspetto su cui Washington batte da un po’, l’allargamento delle relazioni. Per LaCamera, l’alleanza innanzitutto comprende anche “la vigilanza contro la Cina e la Russia”.

Questo significa che non solo quelle affermazioni di Biden sono parte di una discussione interna agli apparati che delineano la strategia statunitense in modo ampio, ma che nell’ambito di quella discussione si parla anche di potenziali alleati per poter sostenere determinati obiettivi – nel caso la difesa di Taiwan, che significa contenimento della Cina. È un segnale che qualche cosa potrebbe cambiare (nel breve, nel medio o nel più lungo termine) sull’approccio statunitense al dossier?

Gli Stati Uniti si muovono per sondare la possibilità di sostegno davanti a un’eventuale difesa di Taiwan. Un nodo non del tutto sciolto, secondo il principio dell’ambiguità strategica, nemmeno da loro stessi, ma il cui scioglimento dipenderà anche dalla capacità di costruire un fronte.

Da Tokyo hanno ricevuto un messaggio incoraggiante, sebbene non esaustivo. Il Giappone non ha mai parlato di aspetti militari, ma nell’ultima annata ha sottolineato la necessità che Taipei resti autonoma.

Se la pace e la stabilità lungo lo stretto sono una priorità per l’arcipelago in termini di sicurezza, altrettanto potrebbero esserlo per Seul secondo le stesse ragioni di prossimità geografica e condivisione del bacino geostrategico.

La Corea del Sud si è recentemente allontanata dalla consueta ambiguità sulle relazioni con la Cina – indicando una preferenza per quelle con gli Stati Uniti (nell’ambito di un dualismo ad excludendum che non piace a molti, ma sta diventando sempre più una realtà). Tuttavia è probabilmente prematuro parlare di un completo shift che possa portare anche a posizioni più assertive riguardo alla difesa di Taiwan.

A differenza di Paesi come l’Australia – dove il primo ministro ha definito “inconcepibile” non partecipare alle eventuali operazioni statunitensi per difendere Taiwan – la Corea del Sud evita solitamente di approfondire l’argomento, parlando piuttosto di “gestione pacifica” della situazione lungo lo Stretto. Terminologie generica, seppure ricca di significato, solitamente usata per evitare di indispettire i fronti.

È la linea di mantenimento dello status quo, che non garantisce una soluzione definitiva alla controversia sull’isola – che Pechino rivendica come proprio territorio sovrano e che potrebbe annettere in futuro anche con la forza, anche se Taiwan non è Cina e le ambizioni del Partito/Stato hanno una fondatezza storica limitata. Allo stesso tempo però, il mantenimento dello stato attuale permette di creare relazioni informali con Taiwan e di sfruttarne le potenzialità (per esempio quelle economico-commerciali).

Il problema è che Pechino sta via via logorando quello status quo, spostandolo costantemente a proprio vantaggio. È in questo senso che la visita di agosto della Speaker della Camera statunitense, Nancy Pelosi, è stata sfruttata dalle autorità cinesi per rimodellare linee rosse e spostarle verso il mailand. Un esempio è lo sdoganamento delle acque territoriali taiwanesi per piazzare aree di esercitazione delle forze armate cinesi (anche se pare che i mezzi della marina dell’Esercito di liberazione popolare alla fine abbiano mantenuto le distanze dal perimetro taiwanese per buona parte delle manovre).

È possibile che Washington si stia avviando verso un percorso di chiarezza, ossia superando l’ambiguità strategica sul “se” difenderà Taiwan davanti a un’eventuale aggressione della Cina. Anche perché le mosse di Pechino aumentano di assertività in modo continuo e davanti a questo gli Usa segnano le proprie red-lines. Il leader cinese, Xi Jinping, d’altronde avrebbe chiesto prontezza operativa per invadere Taiwan entro il 2027: non significa che per quella data attaccherà, ma vuole essere sicuro di poterlo fare qualora volesse.

È evidente che davanti a questo per gli Stati Uniti serve costruire un sistema di coinvolgimento. E questo passa come prima sponda dagli alleati principali nella regione, Corea del Sud e Giappone, i quali tuttavia mantengono incertezze, ambiguità e peculiarità. E se è difficile per Seul e Tokyo sciogliere il dubbio, ancora di più lo è per altri partner americani – come le Filippine, il Vietnam, l’Indonesia per esempio.

Molti dei Paesi della regione dell’Indo Pacifico non prendono posizione su un’eventuale difesa di Taiwan perché sono perfettamente consci che è una questione di delicatezza unica, la quale potrebbe rompere legami e relazioni con la Cina – che per essi sono vitali. È del tutto plausibile pensare che questi rimanderanno una decisione di neutralità (probabile) o coinvolgimento (solo se forzato) davanti al fatto compiuto.

Lo stesso potrebbe fare l’India. Nuova Delhi è parte dell’allineamento americano per interesse di contenimento cinese, ma attualmente una posizione su Taiwan che vada oltre alle circostanze di rito – pace e stabilità – non valuta di prenderla. La presenza del primo ministro indiano al vertice della Shangai Cooperation Organization, il deconflicting lungo l’asse sensibilissimo himalayano, fino alle parole chiare del ministero degli Esteri indiano, sono passaggi recenti che indicano come per ora l’interesse è nel ristabilire equilibrio (che non significa amicizia) con la Cina.

E Taiwan è invece notoriamente un dossier che crea squilibrio con Pechino. Ma se gli Stati Uniti entrassero in guerra per difendere Taiwan, c’è un altro attore internazionale che sarebbe con ogni probabilità chiamato in causa: l’Unione Europea. Su queste colonne Matthew Kroenig (Atlantic Council) ha sostenuto che per Bruxelles è impossibile ignorare ciò che sta accadendo e cosa potrebbe accadere.

Lo è anche per i singoli Paesi europei. Su questo il Regno Unito ha fatto un passo in avanti verso la linea americana, mettendo in guardia la Cina su eventuali rischi di azioni aggressive, ma senza essere esplicito su un intervento.

Nello scontro galattico tra Democrazie e Autocrazie che contraddistingue il corso delle relazioni internazionali attuali, Taiwan è una linea di faglia attorno a cui si snodano dinamiche fondamentali per il futuro. Non è detto che si arriverà a uno scontro militare: tuttavia le posizioni sul destino dell’isola sono già parte fondamentale di questo confronto. 

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