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Continua a far discutere la decisione del Parlamento europeo (appoggiata anche da Commissione e Consiglio) di impedire la vendita di nuove auto e furgoni che non siano a emissioni zero dal 2035. Una mossa dirigista pensata per accelerare la diffusione delle soluzioni di mobilità sostenibile. Ma come spiegava il professor Marco Cantamessa su queste colonne, implica l’adozione forzata dell’elettrico, ad oggi identificato come soluzione ideale. Le aziende devono scommettere tutto lì per rimanere competitive, cosa che toglie l’ossigeno alle tecnologie alternative, con immense ripercussioni sul settore dell’auto. Per non parlare della sovraesposizione allo strapotere della Cina.

I MAL DI PANCIA ITALIANI

Questa visione sta raccogliendo accoliti insospettabili, segnatamente al di fuori del campo conservatore. L’ultimo è Romano Prodi, due volte primo ministro ed ex presidente della Commissione europea, che dalle colonne del Messaggero ha lanciato l’allarme: il Parlamento europeo ha commesso un errore strategico schierandosi in favore dell’unica scelta produttiva nella quale l’Europa è fortemente svantaggiata rispetto ai rivali. Il limite al 2035, scrive Prodi, “ci obbliga infatti a mettere in secondo piano i progressi in corso nel campo dei biocarburanti, dell’idrogeno e delle altre tecnologie che vedono l’Europa combattere ad armi pari”.

Ci sono poi i dubbi riguardo ai veicoli elettrici, tra cui quantità e qualità delle materie prime utilizzate, elevato costo di rottamazione delle batterie, che pesando di più richiedono più energia per muovere l’intera auto. Ancora: il mix energetico ancora “sporco”, l’infrastruttura di ricarica, i tempi dilatati per caricare e i dubbi sull’autonomia. E i cinquantamila posti di lavoro a rischio in Italia, che secondo alcune stime sono ancora di più. Insomma, non è detto che in condizioni normali di mercato, da qui al 2050, l’elettrico si riveli la soluzione migliore. Motivo per cui esiste la revisione del piano al 2026, voluta dal commissario per il mercato interno Thierry Breton.

Quella è la data indicata dal ministro per le Imprese e il Made in Italy Adolfo Urso come fulcro della strategia italiana: aspettare che Parlamento e Commissione vengano ridisegnate dalle elezioni del 2024 e rimodulare l’approccio. Ma per i commentatori, inclusi i sopracitati Cantamessa a Prodi, la “pezza è peggiore del buco […] perché le grandi decisioni saranno già state messe in atto”. E dall’altro lato della barricata, anche i think tank ambientalisti esortano ad andare dritti sul comparto elettrico – che si sta già imponendo in Cina e Stati Uniti come la soluzione prescelta – per salvare la competitività europea.

LA PARTITA UE-USA (CON VISTA SULLA CINA)

Ma non mancano i dissapori a livello europeo, dove le aziende impegnate nella transizione verso l’elettrico temono la competizione spietata (e ampiamente sussidiata) di Stati Uniti e Cina. In questi giorni BusinessEurope, associazione di categoria che rappresenta le aziende europee, ha criticato Washington per il fatto che le pressioni sugli alleati europei riguardo al decoupling dalla filiera cinese non è accompagnato da una strategia industriale comune. “Il nostro più importante partner commerciale decide nel proprio interesse […] ma vuole che li sosteniamo sulla Cina”, ha dichiarato Luisa Santos, vicedirettore generale di BusinessEurope. E Cecilia Bonefeld-Dahl, direttore generale di DigitalEurope (che rappresenta il settore tecnologico del continente), ha esortato ad adottare “un’azione congiunta e di standard comuni”.

La Commissione europea ha dichiarato che cercherà di avviare colloqui con gli Stati Uniti in merito ai sussidi. “Dobbiamo cercare sinergie e lavorare per evitare barriere commerciali nelle relazioni transatlantiche”, ha dichiarato la scorsa settimana un portavoce della Commissione. E in realtà il coordinamento tra Ue e Usa si sta già concretizzando a monte, nel comparto dei materiali critici necessari per le batterie. Perché come spiegava la segretaria al tesoro Janet Yellen, è da quel settore che emergeranno le opportunità per estendere i sussidi statunitensi anche alle aziende europee. E occorre non perdere di vista la vera minaccia sistemica alla transizione intesa all’occidentale. La stessa presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, aveva ricordato dal palco di Davos che è necessario evitare un conflitto commerciale con gli alleati e cooperare contro chi, a forza di sussidi, erode da tempo l’industria occidentale: la Cina.

Qui la questione tecnico/commerciale si interseca con quella politica. Nel suo recente tour europeo, il responsabile esteri del Partito comunista cinese Wang Yi ha lavorato per ripristinare le basi di un dialogo più produttivo tra leader europei e cinesi e una cooperazione più sostanziale in materia di tecnologia. A margine della conferenza di Monaco, il diplomatico cinese ha esortato l’omologo europeo Josep Borrell a “riportare gli scambi bilaterali ai livelli pre-epidemia il prima possibile”. E in una dichiarazione rilasciata dal Ministero degli esteri cinese domenica, Wang ha sostenuto che “entrambe le parti dovrebbero mantenere l’apertura e la cooperazione, resistere al disaccoppiamento e lavorare insieme per mantenere la stabilità della produzione globale e delle catene di approvvigionamento”. Per Bloomberg, questo è uno spazio di tensione che Pechino, con la sua strategia divide et impera, può erodere la cooperazione transatlantica: si tratta di “un segnale degli sforzi della nazione asiatica per corteggiare l’Europa in un contesto di peggioramento dei legami con gli Stati Uniti”.

Immagine: Dennis Schroeder/Nrel via Climate Visuals

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