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La maledizione del debito. Gira e rigira, alla fine ogni problema del Belpaese va a urtare contro il vulcano più pericoloso della Penisola, più dell’Etna e del Vesuvio. Il (super) debito pubblico, appunto. Hai voglia a dire che c’è debito cattivo e debito buono. Hai voglia a dire – come ripeteva un dissacrante Ronald Reagan (1911-2004) – che se e quando il debito è grande, allora vuol dire che può camminare da solo. Al dunque, al momento delle scelte cruciali, l’insostenibile pesantezza del debito può diventare più travolgente e incontrollabile di un elefante fuori di testa.

A causa della guerra all’Ucraina scatenata dalla Russia, con conseguente doppia inflazione (da caro-energia e da caro-alimenti) e conseguente crisi del sistema economico internazionale, sta per entrare nel vivo un altro tipo di guerra, collaterale: la guerra delle sovvenzioni. Ha cominciato l’America del presidente Joe Biden, il cui governo ha messo in mare un barcone di dollari per sostenere la navigazione di tutte le imprese Usa colpite dallo shock causato da Putin, a sua volta successivo allo shock provocato dal Covid. A stretto giro di posta, anche la Germania ha pensato bene di correre in soccorso del suo apparato industriale, costruendo un maxi-scudo da 200 miliardi di euro contro recessione ed altri effetti legati all’invasione dell’Ucraina. A seguire, tutti gli altri governi europei hanno predisposto analoghi interventi di salvataggio, anche se nessuno potrebbe competere con la mole degli aiuti di Berlino destinati alle imprese tedesche. Innanzitutto, l’Italia non può competere.

Non può competere, l’Italia, perché il suo debito pubblico è proibitivo, non le consentirebbe altri scostamenti di bilancio. Peraltro, la Bce non acquista più i nuovi titoli del debito pubblico. Gli investitori interni e internazionali hanno le orecchie più ritte di un’antenna: il solo sentire parlare di nuovo debito potrebbe indurli alla fuga alla velocità della medaglia d’oro olimpica Marcell Jacobs. Insomma, meglio non rischiare, meglio non giocare con le parole. Infatti, la presidente Giorgia Meloni non ha derogato dalla linea di Mario Draghi, in materia. Niente debiti ulteriori, neppure per coprire l’impopolare aumento dei carburanti scaturito dallo stop al taglio delle accise. Un segnale che i mercati e gli investitori hanno apprezzato.

E però le sovvenzioni della Germania alle imprese teutoniche non sarebbero indolori per gli altri. In particolare per l’Italia. L’Europa è nata insieme con la necessità di dar vita a un mercato comune che creasse le condizioni per la definitiva integrazione politica. E la concorrenza industrial-commerciale mal si coniuga con la prassi degli aiuti di Stato, una tentazione assai cara ai governanti, ma assai cara (nel senso di costosa, stavolta) anche al mega-esercito dei consumatori europei, costretti a scucire più soldi per assicurarsi prodotti e servizi (con prezzi sottratti all’azione calmieratrice tipica della concorrenza).

Le imprese tedesche sostenute dai soldi stanziati dal Cancelliere Olaf Scholz avrebbero gioco facile nella gara con le concorrenti imprese italiane, che, prima o poi, si ritroverebbero ai margini o addirittura fuori dal mercato. Né risulta convincente la controdeduzione germanica: siccome le industrie tedesche e italiane sono legate a filo doppio da rapporti antichi, i benefìci statali ricevuti dalle prime produrrebbero vantaggi a cascata anche per le seconde, cioè per le aziende italiane. Non risulta convincente, questa tesi, per due ordini di motivi. Uno: non tutte le imprese italiane sono interconnesse con partner tedeschi. Due: se si comincia a violare il principio della concorrenza, si sa come si comincia, ma non si sa come si finisce. Può persino accadere che la stessa unione economica europea vada in tilt, altro che percorsi di unità politica da accelerare al più presto, sull’onda, pure, dell’offensiva scatenata dal nemico moscovita (la presenza di un nemico comune ha sempre rappresentato, nella storia dei popoli, il principale elemento di aggregazione nel campo degli aggrediti). Né avrebbe senso concedere allo Stivale, a mo’ di risarcimento, maggiore flessibilità nell’utilizzo dei fondi del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza).

La questione della concorrenza è centrale, in Europa. Se salta, o viene in parte compromessa, la concorrenza, può saltare tutto. Ecco perché mai come oggi è fondamentale affrettare i tempi per un bilancio europeo comune, in modo che l’Europa possa indennizzare i perdenti tramite il debito comune, ad esempio con gli eurobond di guerra, come sarebbe nel caso attuale. Del resto è la medesima filosofia che ha partorito il Next Generation Eu, strumento finanziario da 750 miliardi di euro, da cui attinge lo strumento operativo del Pnrr. Perciò non si comprende come mai la Germania abbia voluto derogare riscoprendo gli aiuti di stato per il proprio sistema industriale. O meglio, si comprende benissimo: sotto sotto la Germania continua a non fidarsi dell’Italia, del macigno del nostro debito pubblico, e quindi recalcitra sul bilancio e sul debito comuni.

Ma la Germania non è al di sopra di ogni sospetto. Né può lanciare sempre la prima pietra. Nessuno come lei, in Europa, è esente da colpe per aver sottovalutato i piani annessionistici e aggressivi di Putin, per aver assecondato la dipendenza energetica da Mosca e la relativa sudditanza geopolitica e strategica. Errori, questi, ricaduti su tutte le altre popolazioni dell’Unione Europea.

E allora? L’obiettivo vero di Putin è proprio quello di dividere e/o disintegrare l’Europa. Non bisogna facilitargli il compito litigando come i polli di Renzo. E l’Italia? Meloni non deve mugugnare o protestare più di tanto per l’esclusione dal club decisionale franco-tedesco. È accaduto a tutti i suoi predecessori, fatta eccezione, spesso, per Draghi che era Draghi, il super-tecnico salvatore dell’euro. Meloni ha un solo modo per rientrare nell’Europa di serie A: fermare, ridurre il debito pubblico. Nulla di più. Solo così avrà più argomenti per bloccare l’idea di Scholz di rianimare e rilanciare l’industria tedesca grazie al fiume di flebo degli aiuti stato. La guerra delle sovvenzioni si combatte soprattutto con il rigore della spesa.

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