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Molti vorrebbero annacquare le responsabilità del Cremlino nell’aggressione all’Ucraina. Hanno usato vari argomenti per sostenere le loro tesi. Il primo è stato che l’Occidente avrebbe tradito Mosca, promettendole che la Nato non si sarebbe allargata ad Est. Gorbaciov ha fatto cadere nel ridicolo, affermando che nessuna promessa era stata fatta. La seconda scusa era che l’Ucraina costituisse una minaccia per la Russia, per la possibilità di entrare nell’Alleanza. In realtà, era impossibile che vi accedesse, dati gli stretti legami esistenti fra l’Europa e la Russia. Kiev voleva invece far parte dell’Ue. La rivolta Maidan del 2014, che cacciò il filorusso presidente Janukovyč, fu dovuta al fatto che egli avesse accettato di non firmare il patto di ammissione all’Ue, in cambio di un prestito di 15 mld $ da parte di Putin. L’europeizzazione dell’Ucraina avrebbe vanificato i suoi sogni imperiali e forse, soprattutto, avrebbe avuto un effetto di destabilizzazione del suo cleptocratico regime.

Oggi sta prendendo piede l’affermazione che l’intervento russo sia stato motivato dalla volontà di salvaguardare la minoranza russa del Donbass, specie delle due “repubbliche del popolo di Luhansk e di Donetsk”, nate dalla rivolta anti-Kiev scoppiata nel 2014 a seguito della caduta del regime di Janukovyč. In altre parole, l’Ucraina, con i suoi tentativi di riprendere con la forza il controllo delle province secessioniste, se la “sarebbe voluta”, sabotando anche gli accordi Minsk-2, conclusi frettolosamente nel febbraio 2015 soprattutto per pressione del cancelliere tedesco Angela Merkel, preoccupata per la possibilità di un conflitto fra la Russia e l’Ucraina.

A parte il fatto che non si può negare che la Russia abbia aggredito l’Ucraina il 24 febbraio del 2022 e che l’annessione dell’intera Ucraina fosse stata prevista da Putin nel suo saggio del luglio 2021 sull’identità dei popoli russo e ucraino e confermata nella riunione pubblica del Consiglio di Sicurezza russo del 21 febbraio 2022, la veridicità dell’affermazione sulle responsabilità dello scoppio della rivolta secessionista nel Donbass andrebbe verificata in modo analitico sulla base di vari fatti.

Primo: il contenuto di Minsk-2 e i motivi del fallimento del negoziato.

Secondo: se la rivolta del Donbass del 2014-15, continuata sotto forma di conflitto congelato fino al febbraio 2022, sia imputabile prevalentemente a forze locali, oppure se sia stata provocata – e non solo sostenuta e armata – dalla Russia, in contemporaneità con l’annessione della Crimea, nonché l’andamento delle operazioni sul terreno.

Terzo: l’entità delle perdite civili e militari del conflitto fra il governo ucraino e le province secessioniste, tenendo beninteso conto della loro distribuzione temporale. Per ognuno dei punti ricordati occorre che gli analisti riportino anche le fonti da cui hanno tratto le loro considerazioni e, soprattutto, i dati che le sostengono. Senza essi ogni analisi politico-strategica è priva di valore. Tutt’al più può giustificare il “bacione” tanto entusiasticamente inviato da Vauro a Berlusconi in “Non è l’Arena” del 12 febbraio.

Per il primo punto – quello dei negoziati Minsk-2 – rimando alla migliore analisi a parer mio disponibile: quella di Chatham House del 25 maggio 2020 “The Minsk Conundrum – The Western Policy and Russia’s War in Eastern Ukraine”. Essa pone in rilievo come il fallimento del negoziato sia derivato dall’irriconciliabilità del concetto di sovranità limitata ucraina, sostenuto da Mosca, e la richiesta di piena sovranità in politica estera pretesa da Kiev.

Per il secondo punto, la rivolta del Donbass è stata non solo provocata, ma dovuta al sostegno di Mosca. Lo confermano le parole del presidente della “Repubblica del Popolo” di Donetsk, che ringraziando il Cremlino del sostegno dato alla rivolta della minoranza russofona, afferma che 50.000 soldati russi l’hanno fatta nascere e difesa.

Il terzo punto – quello delle perdite civili e militari – insorti, esercito ucraino, forze russe e volontari stranieri e la loro distribuzione temporale – è il più significativo per analizzare la credibilità di chi afferma che l’aggressione del 24 febbraio sia stata motivata dalla volontà di difendere la popolazione russofona del Donbass contro presunti massacri ucraina. La fonte più autorevole di dati al riguardo è il rapporto dell’Ufficio di Kiev dell’Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani del 27 gennaio 2022 “Conflict Related Casualties in Ukraine – April 2014 – December 2021”. Nell’intero periodo i morti sarebbero ammontati a 14.000-14.400, di cui 3.400 civili (non sono contati i 298 morti dell’abbattimento dell’aereo MH-17 nel luglio 2014), 4.400 soldati ucraini, 6.500 miliziani e volontari stranieri. A essi va aggiunto un numero di caduti russi, variabile a seconda delle fonti, da 500 a un paio di migliaia. Per inciso, i morti per l’occupazione della Crimea furono solo 8. I morti civili sono concentrati nel 2014 (2.084), per poi scendere a 955 nel 2015, a poco più di un centinaio nei due anni successivi e a qualche decina annualmente – in prevalenza per scoppio di mine e proietti inesplosi – dal 2018 al 2021.

In sostanza, è una “balla” che l’aggressione russa sia stata provocata dal massacro dei russofoni del Donbass deciso da Zelemsky, così come è una stoltezza pensare che, cedendo il Donbass, anche per intero, Putin si accontenterebbe e cesserebbe la sua aggressione. Un approfondimento della realtà sarebbe necessario, anche per evitare brutte figure.

Vladimir Putin

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