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“Chi concepisce ancora la figura del bibliotecario secondo l’abusato cliché d’un occhialuto vecchio in papalina assorto da mattina a sera nella cura della conservazione e dell’incremento della sua Biblioteca, costui non conosce neppure di vista una biblioteca moderna, la sua funzione, i suoi bisogni, i suoi fini”. È con queste parole che Luigi De Gregori, il bibliotecario cui è intitolata la Biblioteca dell’attuale ministero dell’Istruzione e del Merito, apriva il suo ultimo articolo, nel lontano 1947.

Da allora il mondo, per come lo conosciamo, si è completamente trasformato. Ma a quanto pare non sempre si è “evoluto”, come invece ci fa piacere pensare.

Il carattere profondamente contemporaneo, e anzi, pionieristico che oggi assumono queste affermazioni, se da un lato evidenzia la grandezza dell’uomo cui si deve il salvataggio di numerosi tesori bibliografici dai bombardamenti e dalle razzie dell’esercito tedesco, dall’altro non può che sollevare una sottile malinconia, una indeterminata nostalgia nei riguardi di quel futuro che De Gregori aveva in mente, e che non ha poi trovato concretezza.

Quel futuro, sia chiaro, non si limita a fornirci una visione sul sistema bibliotecario, ma una visione sull’intero sistema culturale, sulla sua funzione ultima: “Non basta essere lo studioso o il professionista di una disciplina per potersi riconoscere [nella figura] del bibliotecario se insieme non si considerano i libri gli strumenti d’un complesso lavoro da organizzare a servizio degli altri, di quanti più altri sia possibile, nel modo più pratico possibile”.

Basta sostituire la parola “bibliotecario” con quella di altri tantissimi ruoli culturali per comprendere come, negli ultimi 80 anni, il sistema culturale nel suo complesso abbia conosciuto una evidente e significativa involuzione, e comprendere come molti professionisti di oggi, in qualche modo, stiano, consapevolmente o meno, sostenendo sforzi e profondendo impegno per poter “recuperare” il tempo perduto.

La cultura per “gli altri”, per quanti “più altri possibili” e nel modo “più pratico possibile”.

L’Italia di De Gregori era l’Italia del 1947, quella che usciva dagli orrori della seconda guerra mondiale e si apprestava ad entrare a quella che verrà poi definita la “guerra fredda” che avrebbe silenziosamente diviso il mondo per i successivi 40 anni.

Più vicina a Roma Città Aperta che alla Dolce Vita, insomma. L’Italia in cui l’analfabetismo era ancora presente (nel ’51 gli analfabeti erano circa il 13% dell’intera popolazione italiana e circa un quarto dell’intera popolazione del sud).

Oggi, invece, abbiamo avuto l’esigenza di modificare il concetto stesso di analfabetismo, introducendo il caso specifico dell’analfabetismo funzionale, per distinguere la capacità di riconoscere le lettere e parole e la capacità di capire un normale testo.

In quell’Italia in bianco e nero (le trasmissioni televisive a colori sarebbero arrivate soltanto 25 anni dopo), appena uscita da una gravissima crisi internazionale, chi si occupava di cultura aveva chiaro quali fossero le priorità: creare cittadini più consapevoli, che conoscano la propria storia, che imparino a riconoscere la bellezza del proprio Paese, e che sviluppino nei riguardi di questo Paese, un sano e consapevole senso di appartenenza.

Oggi, 2023, forse molti non concepiscono più la biblioteca come il luogo polveroso in cui l’occhialuto studioso regna egemone. È vero. È un cliché che negli ultimi anni è stato superato, senza tuttavia essere sostituito da nessun’altra immagine.

Fatte le dovute eccezioni, perché è chiaro che non sia possibile generalizzare, è tuttavia un dato di fatto che in molti casi, dell’idea di biblioteca non è scomparso soltanto il cliché, ma anche la biblioteca stessa.

Oggi, 2023, il progetto di un Sistema Culturale in grado di conquistare “quanti più altri è possibile” è praticamente stato sconfitto.

Sconfitto da coloro che al di là di qualsivoglia dichiarato pluralismo, covano l’arroganza di poter essere gli unici interpreti della conoscenza. E sconfitto allo stesso tempo da coloro che piuttosto che interpretare l’estensione dei servizi a favore della cittadinanza o il coinvolgimento dei soggetti privati come meri strumenti di quel progetto, si soffermano a sterili lessici economicistici, gloriose sigle finanziarie, anglicismi sbarazzini.

È quel progetto che bisogna in qualche modo ripristinare, smettendo di confondere gli obiettivi con gli strumenti, rinunciando all’approccio teologico della cultura, e comprendendo che la cultura acquisisce tanto più valore quanto più essa è condivisa.

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Oggi, 2023, il progetto di un sistema culturale in grado di conquistare “quanti più altri è possibile” è praticamente stato sconfitto. È quel progetto che bisogna in qualche modo ripristinare, smettendo di confondere gli obiettivi con gli strumenti, rinunciando all’approccio teologico della cultura, e comprendendo che acquisisce tanto più valore quanto più essa è condivisa

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