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Non sarà il suo giorno più lungo ma forse sarà il più difficile. Il viaggio di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, nato per questioni interne ora si colora di tinte internazionali dove “si parrà la sua nobilitate”.

Le ragioni interne erano semplici. Il vicepresidente statunitense JD Vance arriverà a Roma sotto Pasqua per vedere papa Francesco e il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, ma ci sarà un passaggio, uno struscio, con il suo alleato-arcinemico, il leader della Lega, Matteo Salvini. Salvini forse poteva (e voleva) usare questa passerella per mostrare all’Italia attenta ai ghiribizzi americani, che lui era il figlio preferito d’oltre Atlantico, non Giorgia. Meloni, quindi, probabilmente credeva di disinnescare la minaccia andando per prima a Washington a parlare con il capo dei capi, il presidente Donald Trump, e provare il contrario. Non era un messaggio facile, anche perché non era chiaro se Trump avrebbe voluto dimezzare il viaggio del suo Vance nella penisola.

Senonché, il contesto è cambiato. Si è aperto un braccio di ferro sui dazi tra America e Cina senza precedenti. La Borsa è crollata e più significativamente i tassi d’interesse dei buoni del tesoro americano viaggiano oltre il 4,5% verso il 5%. Oggi gli Stati uniti spendono più per gli interessi sul debito che per il Pentagono e il conto la prossima settimana rischia di salire ancora. Gli alleati – non solo l’Unione europea ma i fedelissimi britannici o giapponesi, canadesi o australiani – sono in rivolta. Trump ha fatto un rischiosissimo passo indietro ordinando una pausa di 90 giorni alla raffica di dazi con quasi tutti ma ha impennato le tariffe contro la Cina al 125% senza alcun risultato.

Probabilmente a Washington pensavano che Pechino si sarebbe piegata in ginocchio; invece, ha raccolto il guanto di sfida e rilanciato. È pronta a uno scontro di lungo termine convinta, a ragione o a torto, che Trump non abbia un piano articolato e sarà lui a chiedere di trattare. Potrebbe essere un colpo, comunque la propaganda decida di dipingere la cosa.

Del resto, Trump si era buttato contro Cina e tutto il mondo lancia in resta. Così Pechino sta aprendo interlocuzioni con tutti e questi tendono l’orecchio. Non si tratta di uscire da accordi militari o seppellire i propri lunghi cahiers de doléance con la Cina, ma al presidente Xi Jinping basterebbe inserirsi in un minimo di gioco d’agio in questa partita. Ci sono segnali che ciò stia accadendo.

Meloni cosa può andare a dire in questo frangente? Certo, non può essere solo una stretta di mano, cosa che le farebbe perdere peso specifico. La prossima volta che chiedesse un incontro le sarebbe rifiutato. Non può parlare di Unione europea: a questo penserà il cancelliere tedesco Friederich Merz, ex avvocato d’affari per aziende americane, più di casa a New York che a Berlino. Né può rappresentare britannici o nipponici, già da tempo intenti a un lavorio frenetico con l’amministrazione. Lei in teoria può portare due cose: un aumento della spesa militare o un’idea forte su come affrontare la Cina, il problema dei problemi negli Stati Uniti. E magari tutte e due. L’aumento della spesa militare sarebbe fondamentale perché indicherebbe un passo avanti della Nato a un disimpegno dall’Europa. Oggi tale spesa non arriva all’1,5%. Gli americani hanno chiesto il 5%. Si tratta di triplicare il bilancio, ma pare già difficile scostarlo dalle attuali minime percentuali vista l’ondata di “pacifintismo penisulare”.

Serve un’idea forte e potabile, non una trovata da baraccone per cui l’Italia è purtroppo notoria. Se non ce l’ha, sarebbe opportuno trovarla in fretta. Tanti auguri signora Meloni, a Lei e al Belpaese.

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