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A metà settimana, l’annuncio da parte del presidente statunitense Donald Trump sull’intenzione di introdurre nuovi dazi, questa volta mirati al settore farmaceutico, ha acceso un allarme diffuso. Il giorno successivo è arrivata la decisione di sospendere temporaneamente (per 90 giorni) i dazi già previsti, ad eccezione di quelli rivolti contro Pechino. Ma lo spettro di nuove tariffe resta sul tavolo.

Nel frattempo in Italia, “parlare di dazi sul pharma”, ha detto il presidente di Farmindustria Marcello Cattani, significa “scherzare col fuoco”, sottolineando come misure di questo tipo finirebbero per colpire anche i pazienti americani, con ricadute sui prezzi, sulle cure e sui costi del sistema sanitario Usa.

Ma perché e come il pharma rischia di finire nel mirino? E quali sarebbero le conseguenze – e le possibili strategie di risposta – per l’Italia e per l’Europa, entrambe fortemente integrate nella catena del valore globale? Mentre si attende di capire se si arriverà a breve a un tavolo negoziale – anche in vista del viaggio a Washington del presidente del Consiglio Giorgia Meloni previsto per il 17 aprile – ne abbiamo parlato con Cesare Pozzi, professore di Economia industriale presso l’Università Luiss.

Professore, che ruolo occupa oggi l’Italia nella filiera farmaceutica globale, e perché il settore è diventato così strategico?

Il farmaceutico è un comparto particolare: negli ultimi anni l’Italia ha registrato una forte crescita dell’export, superiore a molti altri settori. Credo che questo risultato derivi da un’evoluzione delle filiere globali, dove prima le grandi case farmaceutiche esternalizzavano sostanzialmente per motivi ambientali o economici, le aziende italiane si sono specializzate nella produzione conto terzi di pacchetti completi, progettati da multinazionali estere. In sostanza, forniamo un prodotto chiavi in mano che comprende più fasi.

Quindi, qual è la forza dell’Italia?

La forza del nostro Paese è stata quella di occupare un nuovo segmento intermedio, ma cruciale della catena del valore. È questo che ha generato valore sul territorio.

In questo scenario, un dazio quanto può incidere?

I dazi aumentano i costi, ma il farmaco è un bene a domanda anelastica: se cura, si compra, almeno nei paesi cosiddetti ad alto reddito. Quindi, teoricamente, un dazio non dovrebbe abbattere la domanda, ma ciò guardando al singolo farmaco e non alla spesa complessiva. Detto ciò, sicuramente i dazi sul farmaceutico dovrebbero avere un impatto sui consumatori statunitensi, perché renderanno il prodotto più costoso. Il nodo vero è un altro: chi controlla il mercato finale. Se il cliente americano – spesso una multinazionale – decide di cambiare fornitore o di internalizzare le lavorazioni perché considera non espandibile la spesa complessiva, allora sì, esiste il rischio concreto di perdere mercato.

Le conseguenze indirette potrebbero quindi toccare gli investimenti in Italia?

Sì, se l’Italia oggi è competitiva perché fornisce bundle completi a buon rapporto qualità-prezzo, un dazio potrebbe spingere i committenti a riorientare le proprie scelte. Potrebbero scegliere un altro paese, o riportare in casa parti della produzione. Ma ogni filiera ha logiche proprie: per questo l’impatto dei dazi va analizzato caso per caso e filiera per filiera. È il rovescio della globalizzazione. Oggi si produce dove conviene. Se domani conviene andare altrove, ci si sposta. E questo vale anche per noi: non avendo il controllo del mercato finale, subiamo le decisioni altrui e a perdere sarebbe il nostro Paese.

Dietro la scelta americana c’è forse qualcos’altro?

Sicuramente. Gli Stati Uniti hanno un deficit commerciale cronico e massiccio – sul manifatturiero oltre mille miliardi di dollari all’anno negli ultimi anni. Prima o poi dovranno trovare un equilibrio. Se non lo fanno con i dazi, dovranno trovare altre strade. E il soggetto con cui hanno chiaro di doversi sedere è Pechino. La Cina negli ultimi trent’anni è progressivamente divenuta una gigantesca macchina di esportazione, giocando anche su una valuta tenuta artificialmente bassa. Ed è proprio la questione valutaria il convitato di pietra degli ultimi sviluppi che in parte spiega le decisioni ondivaghe della presidenza americana. In un sistema a cambi flessibili, una bilancia commerciale fortemente negativa dovrebbe portare a un deprezzamento della valuta nazionale e, al contrario, a un apprezzamento nel caso di surplus. Ma questo non è accaduto, né per gli Stati Uniti, né per la Cina. La distorsione nei rapporti tra valute altera radicalmente gli scenari commerciali internazionali. Gli Stati Uniti, con un deficit commerciale enorme, continuano a beneficiare di un dollaro forte.

Ma allora per gli Stati Uniti colpire con dazi settori a domanda anelastica come può diventare un modo strategico per far quadrare i conti della bilancia commerciale?

In effetti, nel caso di domanda anelastica il dazio avrà un effetto diretto sul consumatore che paga il prodotto, ma il governo incassa. Negli Usa non esiste un’imposta sul valore aggiunto, quindi hanno più margini fiscali e il dazio può rappresentare un maggiore gettito da reinvestire strategicamente. Da noi invece lo spazio fiscale è molto limitato: l’imposizione diretta è più elevata, ma quella indiretta, ad esempio su energia e carburanti lo è incomparabilmente.

E l’Italia? Come dovrebbe muoversi, anche in coordinamento con l’Unione Europea?

Serve una risposta europea, ma costruita dal basso, filiera per filiera, territorio per territorio. Bruxelles non può calare decisioni dall’alto senza conoscere le specificità locali. E su questo la presidente Giorgia Meloni si è giustamente espressa. Inoltre, in questi tempi l’Italia dovrebbe migliorare le condizioni dei propri mercati interni lavorando sul potere di acquisto delle famiglie per rafforzare il proprio tessuto produttivo. Vorrei poi sottolineare un aspetto importante: mettere un farmaco sul mercato richiede investimenti ingenti. L’Italia ha eccellenze, anche nel biotech, ma manca di quella massa critica che permette di portare avanti lo sviluppo del farmaco sino ad arrivare al mercato finale in autonomia, le nostre scoperte spesso finiscono nelle mani di chi ha le risorse per completarle. L’innovazione farmaceutica costa.

L’attuale scenario può quindi avere anche risvolti inaspettati in Italia?

Sì, se colto con lucidità. Questa fase può rappresentare un’occasione per rafforzare il nostro ecosistema industriale immaginando e realizzando innovazione in cui si riconosca il nostro modello culturale. Ma servono condizioni precise: ricerca pubblica sostenuta, grandi imprese che abbiano un rapporto stabile con il territorio e la nostra comunità, la capacità di guidare filiere complesse e altamente specializzate, e un sistema in grado di valorizzare, anche attraverso investimenti, il talento e le conoscenze. L’Italia ha ancora competenze, risorse umane e patrimonio industriale. Ma, senza un’azione strategica, rischiamo che anche questa opportunità venga colta da altri.

 

Cosa c’è davvero in gioco dietro la minaccia dei dazi sui farmaci. Parla il prof. Pozzi

Come il pharma rischia di finire nel mirino dei dazi e quali sarebbero le conseguenze – e le possibili strategie di risposta – per l’Italia e per l’Europa, entrambe fortemente integrate nella catena del valore globale? In attesa del tavolo negoziale e del viaggio a Washington del presidente del Consiglio Giorgia Meloni, abbiamo chiesto un parere a Cesare Pozzi, professore di Economia industriale alla Luiss

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