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Non un’alba di pace del martedì e neanche di tregua, ma soltanto la consueta alba di pervicace, bieca ostinazione di guerra e morte di Vladimir Putin. Dall’Alaska alla Casa Bianca si è tuttavia in gran parte sciolto l’iceberg Cremlino-dipendente di Trump e l’Europa ha offerto una magistrale lezione di diplomazia e coesione strategica. In termini calcistici l’Europa ha vinto fuori casa segnando due gol, uno nella porta di Trump e l’altro a carambola nella porta del presidente russo.

Dal punto di vista politico-strategico, tutti da Mosca a Pechino, dai Brics agli altri Paesi schierati con l’Occidente, hanno constatato come, al di là delle stesse intenzioni del tycoon, il vertice della Casa Bianca abbia lanciato un possente messaggio a Putin: la pace ha il volto e la forza di una rinsaldata unità dell’Europa. Un’unità che era molto sbiadita negli ultimi decenni, ma che la guerra scatenata contro l’Ucraina dal presidente ormai a vita della Russia, come prima tappa di un tragico attacco all’Europa, non ha solo resuscitato ma soprattutto amplificato, attualizzandola anche rispetto allo spirito originario difensivo e offensivo dell’immediato dopoguerra, quando si trattava di fronteggiare la minaccia sovietica. L’immagine dei sette leader europei attorno al presidente degli Stati Uniti rappresenta di per sé un deterrente analogo, se non addirittura più ampio, di quello tanto poderoso quanto complesso di un’Alleanza Atlantica esclusivamente a trazione Usa.

È il senso e l’obiettivo della proposta della premier Giorgia Meloni di estendere all’Ucraina la validità dell’Articolo 5 della Nato, quello dell’intervento comune in caso di attacco, superando così il suo mancato ingresso nell’Alleanza. Un effetto rifondativo dell’Europa in assetto anti-russo che, accecato dal suo revanscismo stalinista, Vladimir Putin non immaginava neanche, considerate le profonde divisioni che dilaniavano l’Unione, segnata dalle voragini dei bilanci e dalla Brexit britannica. Quasi un primo passo verso quegli Stati Uniti d’Europa, sognati in vario modo da Giuseppe Mazzini, Winston Churchill, Altiero Spinelli, Luigi Einaudi, Robert Schuman e da molti altri leader e pensatori liberal-democratici. Un’Europa ritrovata che incardina una inedita difesa comune per scongiurare le evidenti intenzioni di Putin di invadere i Paesi baltici, poi la Polonia e proseguire con la Germania.

Keir Starmer per il Regno Unito, Emmanuel Macron per la Francia, Giorgia Meloni per l’Italia, Friedrich Merz per la Germania, Ursula von der Leyen per la Commissione europea, Alexander Stubb per la Finlandia e il segretario generale della Nato Mark Rutte, hanno evidenziato che la difesa a spada tratta di Kyïv non consente alternative e con molta accortezza hanno in sostanza messo Trump con le spalle al muro: scegliere se stare con Putin o con le democrazie occidentali, con Mosca che ha alle spalle la Cina, l’Iran e la Corea del Nord, o con gli alleati naturali e sinceri degli Stati Uniti.

“Nel corso degli ultimi sette mesi – scrive infatti il New York Times – i leader del mondo occidentale si sono iscritti a un corso intensivo di Trumpologia. Presidenti e premier dei Paesi europei si sono recati a Washington, imparando ogni sorta di lezione su come gestire al meglio l’uomo subdolo che siede dietro la grande scrivania nello Studio Ovale”.

È stato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky – aggiunge il New York Times – a imparare di più dalla sua ultima visita di febbraio, quando venne deriso, aggredito verbalmente e infine cacciato da Trump. Da questo punto di vista il risultato è stato immediato. Per tamponare la richiesta ultimativa degli europei di un cessate il fuoco da parte dell’armata russa, avanzata a nome di tutti in particolare dal presidente francese Macron e dal cancelliere tedesco Merz, Trump ha cercato di accorciare i tempi di un rendez-vous fra Putin e Zelensky e per 40 minuti ha tentato di convincere telefonicamente il presidente russo.

Pur tergiversando e tenendosi vago, Putin non si è detto contrario e su questa esile base, che comunque getta significativamente la palla incandescente dell’eventuale rifiuto della pace nel campo di Mosca, il presidente americano ha annunciato che sta già organizzando per le prossime settimane un bilaterale o trilaterale fra i due presidenti, l’aggredito e l’aggressore, probabilmente prima da soli e poi con la sua partecipazione. “Non sappiamo se il presidente russo avrà il coraggio di partecipare a un simile vertice. Pertanto, è necessaria la persuasione” ha avvertito il cancelliere Merz. Meno soft Macron ha affermato che “per la sua stessa sopravvivenza, Putin deve continuare la guerra. È un predatore, un orco alle nostre porte”. “Non dobbiamo essere ingenui, e lo dico con immenso rispetto per il popolo russo” – ha aggiunto il presidente francese, secondo il quale – “Putin ha raramente mantenuto le sue promesse”. Molto scettico anche il presidente finlandese Stubb che si è chiesto: “Avrà il coraggio Putin, che è raramente affidabile, di partecipare a un incontro diretto o sta ancora una volta cercando di guadagnare tempo?”.

Effettiva o virtuale una svolta del vertice della Casa Bianca comunque c’è stata e la si può considerare storica. Per Zelensky che non ha più l’acqua alla gola e molto astutamente ha annunciato l’acquisto di 100 miliardi di armamenti americani, per la leadership in progress dell’Europa, per il presidente degli Stati Uniti che ha cercato di recuperare il passo falso di Anchorage, nonché come ultima chance per lo stesso Putin nei confronti del quale si stanno contemporaneamente addensando tutte le conseguenze negative del conflitto che ha scatenato: dal dissesto economico all’ecatombe di soldati, al bluff delle finte trattative di pace per continuare a bombardare e attaccare.
L’orizzonte che si prospetta a Mosca è quello di tutti i dittatori che provocano guerre che non vincono.

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