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Antony Blinken ha telefonato a Naftali Bennett e Yair Lapid 24 ore dopo il loro annuncio sull’impossibilità di continuare con l’attuale maggioranza di governo in Israele e sulla volontà di portare al voto alla Knesset il provvedimento per lo scioglimento dello stesso Parlamento per procedere entro fine ottobre a nuove elezioni (le quinte in quattro anni). Il segretario di Stato americano ha parlato con il primo ministro e il ministro degli Esteri che, dopo il voto parlamentare, prenderà le redini del governo, della situazione politica, dei rapporti bilaterali, del coordinamento sulle questioni regionali e globali e della visita in Israele del presidente Joe Biden prevista a metà luglio.

Le note diffuse dal dipartimento di Stato (qui quella della telefonata con Bennett, qui quella relativa al colloquio con Lapid) sono pressoché identiche tranne che per un piccolo dettaglio di formulazione relativo al prossimo passaggio di consegne. È l’ennesima dimostrazione di quanto i rapporti bilaterali molto spesso prescindano dalla composizione dell’esecutivo in Israele, Paese caratterizzato da una instabilità politica intrinseca.

Perfino nei pochi mesi che l’amministrazione Biden ha condiviso con l’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu, molto vicino alla destra religiosa americana e in sintonia con l’ex presidente Donald Trump, le relazioni non hanno subito grossi scossoni. Oggi il Likud, il partito dell’ex primo ministro, è primo nei sondaggi diffusi da Kan News: conquisterebbe 36 seggi sui 120 totali ma avrebbe bisogno di Yamina, la formazione del suo ex delfino diventato rivale Bennett, per superare la soglia della maggioranza necessaria per formare un governo (la sua coalizione si fermeranno a un passo, a 60).

La visita del presidente statunitense è sempre un’occasione importante per la politica israeliana. Lapid accoglierà Biden da primo ministro e con il suo partito, Yesh Atid, secondo nei sondaggi (21 seggi). Sarà per lui un passaggio fondamentale in vista delle elezioni, per rafforzare la propria immagine e per rispondere a chi nel Paese non lo ritiene all’altezza del più alto incarico di governo. Per Bennett potrebbe essere invece l’occasione di confermarsi responsabile come fatto intendere cedendo il passo a Lapid (mossa apprezzata dall’amministrazione Biden, come dimostrano le due note sopracitate); ma non è escluso che possa prendersi una pausa dalla politica, visti anche i sondaggi poco incoraggianti. Quanto a Netanyahu, invece, ancora non è chiaro come si muoverà in vista dell’arrivo di Biden, se proverà a ideologizzare il dibattito (elemento che risponde all’aumento della partecipazione politica da parte della popolazione araba) o preferirà una linea più morbida per non pregiudicare i rapporti con l’amministrazione statunitense.

Sulla visita di Biden c’è un fattore di politica regionale che pesa: cosa fare con l’Iran. Se Netanyahu potrebbe usare la volontà americana di ricomporre l’accordo nucleare Jcpoa con Teheran per enfatizzare quella ideologizzazione, dall’altra parte un ruolo ce l’avrà la garanzia di sicurezza che Washington intende costruire attraverso una nuova architettura nell’area. Al centro del tour mediorientale dell’americano ci saranno infatti i rapporti tra Israele e mondo arabo del Golfo, in particolare con l’Arabia Saudita, altra tappa del suo viaggio.

La Casa Bianca sta lavorando a una “road map per la normalizzazione” tra i due Paesi – un primo test operativo è avvenuto con le isole Tritan e Sanifar, mentre oggi, giovedì 23 giugno, l’ambasciatrice Deborah Lipstad, inviata speciale americana per l’antisemitismo, era impegnata in inusuali incontri a Riad dove parlare degli importanti cambiamenti in corso nel Medio Oriente.

Nel frattempo, Washington sta delineando la sua visione per una “difesa aerea del Medio Oriente” (così l’ha chiamata il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz) che coinvolge Stati Uniti, Israele e diversi Paesi arabi, tra cui l’Arabia Saudita appunto. Il progetto non è nuovo, se ne parla almeno dal gennaio 2021, consisterebbe nel creare una rete regionale di radar, sensori e sistemi di difesa aerea, ed è frutto di due elementi.

Il primo, gli Accordi di Abramo che hanno permesso la normalizzazione tra lo stato ebraico e alcune monarchie sunnite del Golfo (non ancora l’Arabia Saudita, che principalmente per il ruolo occupato nel mondo musulmano non ha potuto costruire subito un’intesa). Il secondo, l’intensificarsi della minaccia prodotta dalle componenti più aggressive del regime iraniano, con alcuni gruppi armati regionali come gli yemeniti Houthi – collegati militarmente ai Pasdaran – che hanno colpito più volte Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita.

Se questo è lo schema tattico, dal punto di vista strategico la costruzione di una partnership di sicurezza aerea (che completerebbe quella marittima delle missioni lungo Hormuz o il Mar Rosso), ha altre due ragioni. La prima riguarda il conferire a Israele un ruolo di collante (per quanto fino a qualche anno fa improbabile) perché potrebbe essere Gerusalemme a fornire parte delle tecnologie di sicurezza. Questo darebbe agli Stati Uniti modo di arrivare al secondo obiettivo strategico: Washington, garante dell’architettura in costruzione, dimostrerebbe a tutti i partner regionali di essere ancora presente, annacquando le relazioni in essere e in divenire di quei Paesi con rivali Usa – su tutti la Cina, non interessata a giocare un ruolo simile a quello americano.

Lo spessore del dibattito in evoluzione evidenzia come qualunque sia il colore del governo israeliano, le cose dovrebbero continuare a muoversi. Anche perché, se a Gerusalemme l’esecutivo è volatile, ma la strategia ferma, nella capitale interlocutrici – che siano Abu Dhabi o Riad – la leadership è solida e destinata a guidare quei Paesi per i prossimi decenni.  A Washington, infine, la volontà di essere presente in Medio Oriente, ma con un impatto minore, è quella che guida le amministrazioni da oltre un decennio. Sul tavolo ci sono dunque gli elementi per accontentare tutti gli attori.

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