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Gli ultimi dati confermano l’andamento straordinario dell’occupazione, che si protrae dalla fine della pandemia fino a portarsi già nel 2024 alla pari con l’incremento medio dei Paesi dell’area dell’euro. All’ottobre scorso il livello dell’occupazione (24,2 milioni) e il tasso di occupazione (62,7%) hanno raggiunto punte toccate da ultimo più di quindici anni prima e con un’articolazione positiva nelle diverse componenti. Il rialzo interessa entrambi i generi, i dipendenti, gli autonomi, le varie fasce di età eccetto quella da 25 a 34 anni di età e il Sud come il Nord. In discesa il tasso di disoccupazione (al 6%), quello dei giovani (al 19,8%), e il numero di persone in cerca di lavoro. Questi risultati sono raggiunti sullo sfondo di una sostanziale stabilità del comparto degli inattivi, che non riguarda tuttavia i giovani (15-34 anni). Tra questi ultimi aumentano gli inattivi in contrasto con la riduzione delle fasce successive di età.

La straordinarietà di questi andamenti sta nel contrasto sia con gli andamenti del secondo decennio del secolo, sia con una espansione economica che sembra essersi esaurita. A più occupazione si contrappone la stagnazione della crescita. Come spiegare questa apparente contraddizione? Si tratta solo di una fase congiunturale, destinata a invertirsi nel breve termine, o rispecchia andamenti di più lungo periodo?

Le spiegazioni più ricorrenti tra gli esperti si richiamano al maggior flusso di lavoratori verso i comparti dei servizi, in particolare verso quelli a minor produttività e reddito. Tra questi ultimi, i comparti del commercio, della ristorazione e dell’alloggio hanno espresso una domanda crescente di lavoratori che è stata soddisfatta. Aumentano i lavoratori di questi comparti, ma il loro contributo alla formazione del reddito nazionale è inferiore al loro incremento numerico. Il settore manifatturiero, dopo il boom del 2021, ha presentato un andamento stagnante appena sopra la crescita zero.

Anche nel comparto delle costruzioni è aumentata l’occupazione, ma con esiti modesti in termini di produttività. Una parte della domanda di lavoro è derivata dalla richiesta di servizi professionali e tecnologici, e per le tecnologie ICT. In entrambi i comparti le retribuzioni appaiono relativamente più elevate e le richieste di forze lavoro in espansione, ma una parte consistente della domanda rimane insoddisfatta per la carenza di competenze tecniche. Con la diffusione della digitalizzazione e il rapido avanzare dell’impiego dell’IA in ogni fase dell’attività d’impresa, la scarsità di professionalità limita le possibilità dell’impresa di far progredire la produttività del lavoro e quella multifattoriale.

Il disallineamento dell’offerta di lavoro rispetto alle richieste delle imprese è altresì il riflesso dell’insufficienza della riallocazione delle forze di lavoro verso i comparti in espansione della nuova economia. Questa è una delle conseguenze delle diverse rigidità che dominano nel mercato del lavoro e della scarsità di investimenti nel riqualificare la forza lavoro che sia adattabile alle nuove tecnologie. Soltanto alcune imprese hanno deciso di addestrare a loro spese i lavoratori di cui hanno bisogno.

L’insistenza sul ruolo dell’incremento di produttività è giustificata in un Paese che assiste da anni a un persistente calo demografico, con un’insufficienza delle nascite persino a coprire i decessi, e all’assottigliarsi dell’immigrazione dall’estero. Il progredire della produttività per addetto rappresenta, quindi, la chiave per sostenere ed accelerare la dinamica della produzione e dei redditi. Ma non è tutto, perché l’aumento degli occupati genera in ogni caso redditi aggiuntivi, che dovrebbero innescare nuova domanda e di riflesso incrementi della produzione in successione. In realtà, una parte dei redditi è stata risparmiata e un’altra parte è destinata ad acquisti di beni e servizi importati. Un’altra parte ancora è erosa dall’inflazione che nel periodo post-pandemia ha raggiunto picchi elevati e non è stata ancora interamente compensata da corrispondenti incrementi salariali.

Guardando alle retribuzioni contrattuali, l’Istat rileva che il loro livello medio al netto dell’inflazione è al di sotto di quello del gennaio 2021. Questo indice fornisce solo una misura approssimativa in quanto le retribuzioni effettive si discostano da quelle contrattuali e la dispersione attorno alla media è notevole. Nel comparto dei servizi privati i salari sono sostanzialmente stabili, mentre la loro dinamica è in rallentamento nel comparto industriale in contrasto con l’accelerazione nel comparto pubblico. Nell’insieme, la dinamica salariale quest’anno supererebbe la crescita reale del Pil (2,9% contro 0,5%) proseguendo nel recupero di potere di acquisto perduto nel biennio 2022-2023. Secondo l’Istat questa tendenza proseguirebbe l’anno prossimo, seppure in misura attenuata (2,4% contro 0,8%).

Sul lento e incompleto recupero del potere di acquisto delle retribuzioni è incentrata una parte della spiegazione che viene data alla stagnazione economica. Col completarsi di questo processo e l’aumento degli occupati si dovrebbe assistere nei prossimi anni a una ripresa più consistente della domanda interna e quindi della produzione su base congiunturale. A smorzare questo effetto, tuttavia, concorre il fatto che il risparmio degli italiani solo in parte si indirizza a finanziare maggiori investimenti specialmente in un periodo in cui gli istituti creditizi mostrano una crescente cautela nell’erogare credito per tenere conto più che nel passato dei profili di rischio dei prenditori di fondi. Su questo versante le nuove tecnologie, la Fintech, hanno dischiuso nuove soluzioni alternative al canale bancario, che nondimeno sono finora poco impiegate dalle famiglie come sbocco di impiego per la loro limitata istruzione in campo finanziario.

In prospettiva per il prossimo anno, secondo l’Istat, la domanda interna continuerà a fare da traino alla crescita, producendo una lieve accelerazione (0,8%) a cui si accompagnerebbero un moderato aumento dell’occupazione e una discesa del tasso di disoccupazione. Il recupero dei salari alimentando il reddito disponibile delle famiglie spingerebbe i consumi, mentre continuerebbe l’ottima performance degli investimenti in entrambe le componenti fabbricati non residenziali ed impianti e macchinari) (+2,7%). In questo quadro il ruolo propulsivo della crescita tanto atteso dalle opere del PNRR rimane limitato pur irrobustendo il potenziale produttivo del Paese e l’occupazione nel breve periodo. Sul più lungo termine si deve fare affidamento sugli effetti della ripresa degli investimenti e delle riforme strutturali nell’incrementare produttività e redditi.

Sul piano strutturale l’espansione dei servizi a maggior valore aggiunto non tende a mantenere bassi i salari, ma li porta in alto e con essi la crescita economica. Per arrivare a tanto è inevitabile l’innalzamento delle competenze e delle capacità imprenditoriali. La più grande discriminante tra redditi da lavoro bassi e quelli alti si riscontra nel livello di istruzione del lavoratore, lasciando da parte le differenze tra lavoro dipendente e quello autonomo. Con l’innalzarsi del livello di istruzione, aumentano il livello di reddito e anche il tasso di occupazione.

I comparti dei servizi ICT e di quelli professionali sono quelli che offrono retribuzioni comparativamente elevate e sono caratterizzati attualmente da un eccesso di domanda di lavoro rispetto alla disponibilità di competenze. Con l’espandersi dell’impiego delle tecniche di Intelligenza Artificiale questa tensione non è destinata a essere riassorbita in tempi brevi. La produttività per addetto ne beneficerà in gran parte dei settori, dal manifatturiero al finanziario, ma fin quando questa tendenza è confinata ai servizi ICT e a quelli avanzati inciderà poco sulla crescita e l’occupazione perché attualmente contribuiscono in misura piccola (le ICT per 2,6%) all’occupazione totale.

La tesi secondo cui l’erosione dei salari reali abbia indotto le imprese a rimpiazzare nuovi investimenti con un maggior impiego di forza lavoro non sembra valida per gran parte dei settori. I due fattori produttivi nella nuova economia sono sempre meno fungibili e nella maggioranza delle piccole imprese vi è un deficit di conoscenza che ha ostacolato l’adozione di tecniche avanzate. Il diffondersi dell’IA nei processi produttivi, per altro verso, espone i lavoratori con competenze intermedie a maggior rischio di riduzione della domanda di lavoro rispetto ai low skills e alle high skills. Si potrebbe pertanto determinare uno scenario in cui l’occupazione aumenti solo nelle high skills ad alta produttività e nelle low skills a bassa produttività, con un controbilanciamento tra le due componenti. Il risultato sarebbe un’occupazione crescente che ha poca corrispondenza con la crescita dell’economia. Ma una simile ipotesi è tutta da verificare.

Alla luce delle tendenze correnti si potrebbe, invece, sostenere che il disaccoppiamento tra le due dinamiche non è destinato a durare a lungo e che nei prossimi anni, per effetto degli interventi del Pnrr e della continuazione della buona performance degli investimenti, le due traiettorie tornerebbero ad allinearsi. È ancora presto per ritenere superata la regolare relazione tra crescita reale del PIL e riduzione della disoccupazione (la cosiddetta Legge di Okun).

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