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Le elezioni del 25 settembre si presentano complicate sotto vari aspetti. Esse si svolgeranno nel contesto di una situazione internazionale estremamente rischiosa (che, nella versione peggiore, ricorda il lungo “scivolamento nel conflitto” che ha preceduto le guerre mondiali, e nella versione migliore, rappresenta un drammatico riassetto delle relazioni internazionali da cui il c.d. Occidente potrebbe uscirne molto ridimensionato), nonché di una crisi energetica, economica e sociale, quasi impossibile da scongiurare.

Alla luce di questi motivi, la questione della composizione del prossimo Parlamento è tutt’altro che secondaria. Le segreterie dei Partiti stanno procedendo in questi giorni con la selezione dei candidati, e avranno indubbiamente un compito molto difficile, di cui presumiamo (o almeno speriamo) siano pienamente consapevoli: come trovare la quadra, non solo numerica (nel contesto, peraltro, di una fortissima riduzione dei parlamentari), ma che sia allo stesso tempo all’altezza delle sfide e rappresentativa della società italiana in piena trasformazione.

La concentrazione, in questi giorni, sulla definizione delle coalizioni elettorali ha lasciato “sullo sfondo” il grosso delle tematiche su menzionate, così come svariate altre, quali ad esempio il tema dell’immigrazione. Quest’ultimo certamente tornerà alla ribalta, non appena saranno chiuse le liste e con l’approssimarsi dell’appuntamento elettorale. Del resto, gli immigrati presentano un ottimo “punching ball” per ogni stagione politica della Seconda Repubblica, nonostante gli stessi non abbiano un ruolo di rilievo rispetto a nessuno degli storici malanni italici: sono poco rappresentati all’interno dalla Pubblica Amministrazione (ritenuta dai più non efficiente); non sono particolarmente coinvolti nei grandi episodi di corruzione; né svolgono il ruolo di protagonisti all’interno del fenomeno della criminalità organizzata, storicamente molto radicata nel Paese. Allo stesso tempo, la presenza straniera (o di origine straniera) è stata – e lo è tuttora – irrisoria nelle compagini parlamentari e governative che si sono succedute dagli anni Novanta ad oggi (naturalmente anche in quelle precedenti, ma in quel periodo l’Italia non era ancora un Paese di immigrazione), e non hanno quindi neanche le responsabilità storiche delle scelte che hanno causato – o perlomeno non hanno saputo impedire – un oggettivo declino del nostro Paese nell’ultimo trentennio.

Eppure, l’Italia di oggi è un Paese completamente diverso da quello agli albori dell’immigrazione: in poco più di venti anni – nel panorama Ue, solo la Spagna ha avuto una dinamica di crescita superiore -, è stata raggiunta e superata la media Ue in termini di presenza della popolazione immigrata sul totale della popolazione residente, passando da circa 500.000 cittadini stranieri dei primi anni Novata, agli oltre cinque milioni di oggi, per un totale di ben 198 nazionalità presenti. In termini assoluti, l’Italia è il terzo Paese europeo in base al numero dei cittadini dei Paesi terzi, mentre a livello globale si colloca tra gli undici Paesi con la più alta presenza migratoria. Senza apporto demografico della componente straniera, la popolazione nazionale sarebbe di appena 54 milioni di abitanti, e questo comporterebbe una perdita del 9% del Pil nazionale.

Sul territorio di alcuni comuni, in particolare nelle regioni del Nord e del Centro Italia, la componente straniera rappresenta già oggi il 10 %, 15 %, 20 % della presenza totale, con punte che in alcuni casi raggiungono il 25 % sul totale della popolazione residente. In alcuni comuni, inoltre, oltre il 50% delle nascite riguarda bambini con almeno un genitore di origine straniera. In linea con quanto esposto sopra, vanno letti anche i dati relativi all’acquisizione della cittadinanza italiana. Infatti, i dati dell’Istat parlano di ben 1,6 milioni di persone che hanno acquisito la cittadinanza in un periodo relativamente breve (con un picco di quasi 380 mila nel solo biennio 2015-2016). In molti casi, si tratta di cittadini che scompaiono dalle statistiche relative ai cittadini stranieri – per essere conteggiati come italiani –, rimanendo tuttavia spesso in condizioni di subalternità lavorativa ed economica; e nei fatti, spesso privi di rappresentanza sociale e politica.

Eppure, tutti questi elementi appaiono lontani anni luce dall’agenda politica. A ben vedere, rispetto al fenomeno dell’immigrazione, i temi che suscitano un qualche interesse nel dibattito politico sono estremamente pochi. Sintetizzando al massimo, i trentadue anni dell’immigrazione in Italia (1990-2022) si potrebbero riassumere nel seguente modo: sono decenni di misure securitarie (per la maggior parte solo annunciate) di contrasto all’ipotetica minaccia, da parte delle forze del centrodestra; e tre decadi di politiche di “difesa degli immigrati”  attraverso messaggi piuttosto riduttivi (le sanatorie negli anni Novanta; “l’accoglienza” – un termine spesso fine a sé stesso,  di dimensione quasi trascendentale, uno “spirito d’accoglienza”, ma non funzionale  all’integrazione;  e nei primi anni Duemila, la riforma della cittadinanza per i [soli ?] bambini, nell’ultimo decennio) da parte delle forze di centrosinistra.

All’interno di tale dialettica, la questione dell’apporto della componente straniera (e di origine straniera) non è mai stata seriamente considerata a livello politico né sotto il profilo dell’inclusione economica e finanziaria, né della partecipazione sociale e politica e, men che meno, delle pari opportunità; ivi compreso anche il diritto dell’effettivo godimento del diritto di rappresentanza politica. Di fronte alla presenza straniera sul totale dei residenti a livello nazionale di quasi 9% (tra questi molti comunitari), nonché delle diverse percentuali di quelli che negli anni sono diventati cittadini italiani, nel Parlamento uscente – sui 630 deputati e 315 senatori – quelli di origine migrante sono stati pari a… uno (eletto peraltro tra le fila della Lega).

Sapranno i leader dei partiti, in questa tornata elettorale, cambiare il paradigma, anche candidando tante/i cittadine/i di origine straniera?  Chissà… PS: Sarebbe una cosa giusta da fare in termini di rappresentanza, ma anche saggia soprattutto di fronte alle sfide di coesione che ci troviamo dinanzi.

Quanti stranieri candideranno le forze politiche italiane?

La questione dell’apporto della componente straniera (e di origine straniera) non è mai stata seriamente considerata a livello politico né sotto il profilo dell’inclusione economica e finanziaria, né della partecipazione sociale e politica e, men che meno, delle pari opportunità. L’analisi di Nadan Petrovic, Università La Sapienza di Roma

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