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Abbiamo avviato un congresso importante, definito “costituente”. Allora non possiamo non porci una domanda, provocatoria ma fino ad un certo punto: l’uscita di sicurezza dalle vicende drammatiche che stiamo vivendo in questo scorcio di secolo sarà la Democrazia o sarà un’altra cosa? Per un partito politico che si definisce “Democratico” nel proprio nome, questa domanda è cruciale, e precede ogni e qualsiasi altra considerazione.

La dico ancora più piatta: all’indomani del raggiungimento del nuovo “status quo” che sostituirà l’equilibrio che si è rotto il 24 febbraio con l’invasione russa dell’Ucraina, avremo società più avanzate dal punto di vista dei diritti, delle libertà, della partecipazione, dell’emancipazione, dell’uguaglianza? Oppure avremo una stagione nella quale diritti e valori saranno destinati ad essere compressi, o addirittura a chiudersi?

Questa è la grande sfida di questi anni. Siamo di fronte a mutamenti storici profondissimi, che hanno intaccato sia l’assioma della socialdemocrazia classica (occupiamoci della redistribuzione della ricchezza che si produce di per sé) sia quello del liberismo (lasciamo esprimere gli “istinti animali” del capitalismo per consentire la crescita complessiva della società).

Questi mutamenti, che qui riassumo, impongono una elaborazione del pensiero politico adeguata ai tempi moderni e non come riproposizione – talora macchiettistica – del passato:

– il carattere sempre più competitivo e conflittuale del capitalismo a livello globale;
– l’ascesa del modello del “capitalismo politico”, ovvero di quel capitalismo dove è lo Stato a determinare con la sua presenza nel mercato le regole del gioco e le condizioni di sviluppo (meccanismo tipico dei regimi autocratici e illiberali, di cui la Cina e la Russia sono l’esempio più lampante, ma che trova altre espressioni in altri paesi “rampanti” sul piano mondiale come Singapore, Vietnam Malesia e anche in altri paesi che stanno tornando ad essere protagonisti stretti per gli interessi italiani come Algeria, Angola, Etiopia, e che trova echi sia nel colbertismo francese che nella stessa politica del capitalismo renano tedesco);
– il ruolo delle informazioni e delle comunicazioni come fattori per cambiare l’ordine politico ed economico (si pensi alla vicenda recente di Twitter e di Elon Musk);
– la nuova era della “economia della conoscenza”, che presuppone una regolazione globale che oggi non esiste, essendo mantenuti a livello statuale o al massimo di UE gli strumenti di governo.

Sono tutti elementi che spingono verso un’unica direzione: il mondo sta cambiando, la realtà è diversa da quello che si immaginava, e mutano gli eventi e i modi di intendere la Politica. In tutto ciò, la guerra innescata da Putin in Europa è un grandissimo acceleratore. Che mette a nudo la saldature tra due guerre: quella tradizionale -fatta di lutti, atrocità, invasione del territorio- e quella economica, che attraversa tutto il globo.

Non possiamo non partire da qui. Non possiamo che far partire la nostra riflessione, in vista della nostra identità democratica, dalla domanda del se e come la Democrazia potrà essere lo strumento per il governo di questi fenomeni drammatici.

Parlando alla Camera dei Comuni nel 1947, Winston Churchill disse che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”, e secondo Goethe “la democrazia non corre, ma arriva sicura alla meta”.

È ancora così? Le autocrazie orientali, che suggestionano e in parte alimentano l’impianto ideologico della destra oggi al potere in Italia, hanno la pretesa di sostenere che non sia più così.

Se, invece, noi riteniamo che sia la Democrazia la chiave per il secolo furioso che stiamo attraversando, abbiamo il dovere di dire come intendiamo inverarla: con quali strumenti, con quali modalità, con quali azioni.

Ecco, io proverei a partire da qui. Dal principio.

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Siamo di fronte a mutamenti storici profondissimi, che hanno intaccato sia l’assioma della socialdemocrazia classica sia quello del liberismo. Questi mutamenti impongono una elaborazione del pensiero politico adeguata ai tempi moderni e non come riproposizione – talora macchiettistica – del passato. L’intervento di Enrico Borghi

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