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La retorica istituzionale degli ultimi tempi utilizza con sempre maggiore forza il ricorso alla cultura attribuendo a tale “entità”, caratteristiche e poteri estesi.

Gli esempi sono molteplici e divengono ogni giorno più frequenti: la cultura che unisce i popoli, la cultura che previene le guerre, la cultura come principale motore di crescita economica del Paese, la cultura come simbolo identitario, la cultura come detentrice dei valori sociali.

Tra questi, il recente discorso del nostro Presidente della Repubblica in occasione di una riunione tra Italia, Spagna e Portogallo, incarna perfettamente questa tendenza all’idealizzazione della cultura.

Una tendenza che forse andrebbe in qualche modo ridimensionata. Certo, l’attenzione alla risorsa culturale è un segnale che bisogna interpretare positivamente: tutti noi sappiamo quanto la cultura, intesa nella sua più ampia accezione, possa rappresentare davvero una parte di quegli elementi che così tanto vengono enfatizzati.

Sviluppare tuttavia una narrazione idolatrante della cultura, soprattutto della nostra cultura “passata”, configura un rischio di separazione tra ideale e reale, rendendo la cultura una dimensione “irraggiungibile”, “metafisica”, “aliena”.

In altri termini, si corre il rischio di sostituire la cultura a Dio, senza, tuttavia, costruirne una religione, che disciplini quantomeno il tentativo di avvicinarsi ad essa.

Il rischio non è soltanto retorico: perché Dio è per propria configurazione irraggiungibile agli uomini, mentre la cultura, per propria configurazione, è quanto di più umano possa esistere.

Esaltare la cultura al punto da renderla così distante rischia di renderci preda del nostro passato, soprattutto se si tiene conto che la nostra cultura contemporanea ha delle caratteristiche che sono molto differenti dalle espressioni dei secoli scorsi che oggi vengono evocate nei discorsi istituzionali.

La cultura divinità è quella del Colosseo, quella del Rinascimento e del Barocco. In alcuni casi può estendersi fino alle dimensioni ormai già storicizzate della nostra cultura recente: in queste occasioni ci si spinge fino alla cultura cinematografica di Cinecittà, alla scuola del design, passando da Olivetti e fino a raggiungere l’alta moda.

In pratica, una cultura tanto “irraggiungibile” quanto stereotipizzante, che nelle intenzioni esalta l’orgoglio nazionale ma che nel frattempo mortifica gli sforzi con i quali la nostra “cultura viva” cerca di affermare una visione più contemporanea e reale del nostro Paese.

Qui il discorso naturalmente si amplia, ed è forse opportuno procedere in modo più puntuale.

Partiamo dalle dimensioni dello “stereotipo” o se vogliamo del “brand”. Su questo punto, va detto, il nostro Paese è tra i più noti a livello mondiale per la propria storia e per la propria cultura. Questo dato si associa però anche a dimensioni che invece sono meno funzionali al nostro sviluppo: così il pregiudizio positivo (Italia Bel Paese), abilita anche l’associazione del pregiudizio negativo (Italia inaffidabile, Italia patria dello stile ma non dell’industria, e via discorrendo). Condizione che ha risvolti pratici evidenti: il pregiudizio positivo si riflette in turismo; quello negativo influisce, insieme ad altri fattori, sulle dinamiche delle esportazioni.

L’iniquo confronto tra cultura che fu e cultura presente si riverbera sui consumi culturali domestici, e qui il confronto tra le testimonianze culturali del passato e quelle più recenti e contemporanee coinvolge non solo le dimensioni narrative e retoriche, ma si riflette anche in decisioni istituzionali e di generale organizzazione dell’offerta culturale del nostro Paese. Per averne conferma, basta guardare all’elenco degli istituti museali autonomi del nostro Paese nel quale la presenza del contemporaneo è semplicemente simbolica.

Gli impatti di queste scelte si riverberano sulla maggiore capacità di sviluppo del contemporaneo, sulla possibilità di creare servizi più innovativi, e su tutte quelle dimensioni che, dal punto di vista gestionale, segnano oggi la differenza tra un museo autonomo e un museo gestito a livello comunale o nazionale.

Al di là delle dimensioni pratiche, però, il messaggio che queste scelte segnalano è ben più sfibrante. Una delle tante chiavi di lettura con cui si cerca di interpretare cosa la cultura sia in realtà, identifica in tale termine l’insieme delle credenze, tradizioni, norme sociali conoscenze pratiche e prodotti propri di un popolo in un determinato periodo storico; un’altra invece vede la cultura come l’insieme delle conoscenze letterarie, scientifiche, artistiche e delle istituzioni sociali e politiche proprie di un intero popolo. Che la si guardi dunque con una prospettiva sociale o antropologica, in ogni caso il messaggio che lasciamo ai nostri cittadini è univoco: l’espressione contemporanea del nostro popolo non merita di essere valorizzata quanto quella del nostro passato. E da qui, il passaggio dal valore delle espressioni al valore degli individui non è breve, ma nemmeno così lontano.

C’è ancora un altro aspetto che merita interesse e attiene alle dimensioni di equità territoriale: veicolando l’attenzione verso i grandi brand, si rende incerto il rapporto tra i cittadini e il proprio territorio. Anche qui, gli esempi pratici di certo non mancano. Si pensi solo all’Anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere, che il sito web del ministero descrive come “secondo solo al Colosseo”. Bene: nel 2019, le persone che hanno visitato (pagando), il monumento “secondo solo al Colosseo” sono state 31.631. L’equivalente di quelle che, nel 2019, hanno visitato (pagando) il Colosseo in poco meno di due giorni.

Si tratta ovviamente di un’iperbole che tuttavia permette di riflettere una condizione estendibile a tantissimi musei del nostro Paese. Con conseguenze che anche qui non riguardano semplicemente il numero di visitatori, ma anche il modo con cui le persone normalmente percepiscono la propria cultura. Se la cultura è il Colosseo, gli Uffizi e gli altri brand, allora perché visitare il Museo Civico o l’area archeologica sotto casa? Se a ciò si associa la differenza in termini di offerta culturale e di servizi che separa le due istituzioni culturali, il fenomeno emerge con ancora più chiarezza.

Identificare la cultura come elemento costituente della nostra società, è quindi un esercizio di stile e di retorica che va svolto con molta attenzione, e soprattutto avendo contezza di cosa sia la cultura all’interno del nostro Paese.

Bisogna riconoscere nella parola cultura quelle dimensioni industriali che oggi chi si occupa di cultura cerca di raggiungere; rispettare il precariato lavorativo dei tantissimi professionisti che oggi si impegnano per rinnovare la visione che il mondo ha del nostro Paese; bisogna avere in mente quelle industrie culturali e creative che sempre più spesso sono fondate da ragazzi che investono i risparmi dei propri genitori per aprire una società semplificata, senza che nessun sistema universitario abbia dato loro capacità manageriale.

La cultura idolatrata, quella cultura che unisce i popoli e salva dai mali del mondo, è una cultura che oggi noi possiamo valorizzare, ma che non ci apparterrà sul serio fino a quando non saremo in grado di proiettare una visione più composita e reale di ciò che la cultura rappresenta, oggi, per il nostro Paese, e per tutti i territori di cui si compone.

Non si tratta di una missione impossibile: si tratta solo di lavorare affinché, quando un italiano pronuncia la parola “cultura”, un altro italiano pensi a qualcosa di vicino e tangibile, e non a qualcuno ormai morto da tempo.

Perché la cultura non è Dio. Scrive Monti

Ultimamente la tendenza è all’idealizzazione della cultura. Una tendenza che forse andrebbe in qualche modo ridimensionata. Certo, l’attenzione alla risorsa culturale è un segnale che bisogna interpretare positivamente. Ma idolatrare la cultura, soprattutto quella “passata”, configura un rischio di separazione tra ideale e reale, rendendola una dimensione “irraggiungibile”. L’intervento di Stefano Monti, partner di Monti&Taft

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