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Mentre in tutta Europa – tranne l’Italia, per ora – sono in corso annunci di convocazioni di ambasciatori cinesi, ordini di chiusura delle illegali “stazioni di polizia d’oltremare” e indagini sulle operazioni clandestine di repressione transnazionale per conto del Partito comunista cinese, arriva una sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo che mina ulteriormente l’utilizzo di “armi legali” da parte della Repubblica popolare per dare la caccia a chi è riuscito a fuggire alla feroce repressione domestica del regime.

Nella sentenza del caso Liu contro la Polonia del 6 ottobre scorso la Corte stabilisce che l’estradizione del cittadino taiwanese Hung Tao Liu verso la Cina per accuse di frode telematica costituirebbe una violazione della proibizione di tortura o trattamenti e punizioni disumani o degradanti sotto l’articolo 3 della Convenzione europea.

Sulla base di vari rapporti delle procedure Onu per i diritti umani (con l’assenza di cooperazione leale da parte della Repubblica popolare), del dipartimento di Stato statunitense e di alcune Ong, la Corte afferma che “l’utilizzo massiccio di tortura ed altre forme di trattamento disumano nel sistema penitenziario cinese costituisce una situazione generalizzata di violenza tale che l’individuo in questione non deve dimostrare di essere a rischio personale”.

La portata di questa sentenza è semplicemente enorme.

Il riconoscimento erga omnes di una situazione generalizzata di violenza – nel caso di una persona ricercato tramite una red notice Interpol per accuse di frode telematica – rende di fatto impossibile per qualsiasi Stato membro del Consiglio d’Europa di estradare chiunque verso la Cina. Questo mentre nell’Unione europea tanti Governi sono rimasti riluttanti a sospendere i trattati di estradizione con la Repubblica popolare nonostante gli appelli incessanti di attivisti, parlamenti nazionali e il Parlamento europeo.

Non solo l’esistenza di questi trattati continua a contribuire al clima di terrore politico che il regime di Pechino cerchi di espandere – purtroppo con notevole successo – in tutto il mondo, ma vengono utilizzati espressamente da Pechino per legittimare il suo sistema giudiziario: “Finora, grazie agli sforzi congiunti della Commissione di Supervisione nazionale, il Ministero degli Affari esteri ed altri Dipartimenti, il mio Paese ha concluso 169 tra trattati di estradizione, trattati di assistenza giudiziario e di ritorno di beni confiscati con 81 Paesi […] La sottoscrizione di essi dimostra effettivamente la buona immagine della Cina nel governare il Paese secondo la legge e ha aumentato il riconoscimento e la fiducia della comunità internazionale nella costruzione dello Stato di diritto cinese”.

A questo comunicato stampa governativo Xinhua dell’11 novembre 2020, la Cedu ora risponde con un secco no. Tutt’altro che quella propaganda della “buona immagine e fiducia della comunità internazionale” a cui tanti dei nostri governi si sono prestati e avrebbero probabilmente continuato a prestarsi. Lo schiaffo alla Repubblica popolare si rafforza peraltro con la chiara bocciatura da parte della Corte delle cosiddette assicurazioni diplomatiche che troppo spesso giudici e ministeri della Giustizia vogliono ancora prendere per buone nonostante le costanti e flagranti violazioni di essi non appena il ricercato è tornato in Cina e i ripetuti ricordi del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura circa la non-validità di tali garanzie.

Sono due parti chiavi di questa sentenza che arriva in un momento cruciale per l’Italia, dove proprio quest’estate è scoppiato un caso di richiesta di estradizione verso la Cina a seguito dell’arresto su mandato di ricerca Interpol. A quanto risulta a chi scrive, proprio come nel caso di Liu, il pubblico ministero italiano si è affrettato a validare la richiesta di estradizione. Grazie alla rapida e agile azione dell’avvocato di difesa il caso pende ora dinanzi al tribunale, dove il giudice ha richiesto proprio delle garanzie diplomatiche a Pechino. Caso da manuale come si suol dire.

Ma un caso di manuale come ce ne sono fin troppo, anche in Europa. E come dimostra sia il caso Liu che il caso italiano in corso, troppo spesso manca la volontà di chi è deputato a proteggere e difendere lo Stato di diritto – non quello cinese, ma quello che fa riferimento appunto ai diritti fondamentali universali – di farlo anche nei confronti della Cina, sperando magari che un’autorità superiore poi si prende le responsabilità di rovesciare le decisioni prese. Siano avvertiti però – considerando anche la cronica lunghezza dei processi in Italia –, che per la Cedu gli anni che individui come Liu passano così dietro le sbarre costituisce detenzione arbitraria (violazione dell’articolo 5 comma 1 della Convenzione).

Questa sentenza storica entrerà in vigore il 6 gennaio 2023, a meno che la Polonia non ne richieda il rinvio alla Grand Chambre, opzione inverosimile e che non farebbe che aumentare ancora il peso del rimarcabile precedente. Si deve sperare che gli apparati giudiziari – dal ministero della Giustizia all’ultimo tribunale – ne prendano immediatamente atto e che i governi europei magari trovino finalmente persino il coraggio di dire anche loro “no” alla propaganda del regime cinese, sospendendo in modo coordinato i trattati bilaterali di estradizione con un regime colpevole di aver istituito “una situazione generalizzata di violenza”.

Estradizioni, la decisione storica della Cedu che non piacerà a Pechino

Basta estradizioni verso la Cina: costituirebbe violazione dell’articolo 3 della Convenzione (divieto di tortura e trattamenti disumani). La Corte europea per i diritti dell’uomo mostra quel coraggio mancante ai Governi europei, stabilendo il precedente per tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa. Implicazione diretta anche per un caso in corso in Italia. L’intervento di Laura Harth, Campaign Director Safeguard Defenders

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