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Capaci e via D’Amelio: trent’anni di sgomento. Due esplosioni che rimbombano ancora e che rappresentano il big bang della lotta contro la mafia e della sconfitta di Cosa nostra.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino restano, la mafia è morta. O quasi. In gran parte soppiantata dalla ’ndrangheta calabrese, leader incontrastata del traffico mondiale della droga e del riciclaggio globale.

Trent’anni della nostra storia, strappati dalle vite di Falcone e Borsellino e che attendono ancora di essere decrittati e svelati.

“Il dolore è tra i pochi compagni della vita a non aver bisogno di memorie, né di ricordi ufficiali: è sempre raggomitolato in un angolo dell’anima pronto a mordere davanti a un odore, ad un portone o a un pezzo di strada”, dice Adriana Piancastelli, già Senior Osint and Media Analyst della Presidenza del Consiglio, moglie del compianto Capo della Polizia Antonio Manganelli, prematuramente scomparso.

“Il loro esempio e la loro statura professionale vanno apprezzati e seguiti da varie angolazioni”, sottolinea Augusto Cavadi, filosofo e fondatore della Scuola di formazione etico-politica G. Falcone di Palermo.

Come evitare l’insita retorica delle commemorazioni e centrare invece il senso della continuità operativa del metodo Falcone, che ne rappresenta la vera eredità?

Adriana Piancastelli – Quando l’asfalto ha ingoiato sangue e vite nelle stragi di Palermo, tutti quelli che hanno avuto la fortuna e l’onore di aver condiviso anche soltanto un’ora di lavoro o di quotidianità con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno realizzato che davvero esistono pietre miliari del dolore che cambiano il senso dell’esistenza inevitabilmente e richiamano alla consapevolezza. Le commemorazioni appagano il rito sociale, l’evento collettivo può esorcizzare l’angoscia, la retorica è di chi si concede alla vetrina e alle apparenze. Giovanni Falcone è stato Maestro nella professione e nelle intuizioni giuridiche e investigative: un capolavoro di intelligenza e sensibilità immerso in una profonda malinconia e vestito di uno splendido senso di humour. Il significato attuale e vivo della sua esperienza terrena è la profonda vocazione al dovere, all’etica, alla onestà professionale ed umana che non ha mai lasciato spazio a luoghi comuni e alla superficialità, trovando sempre spiragli di curiosità intellettuale, di intuizione e creatività, con la naturale semplicità delle grandi menti e delle anime grandi: è la chiave di lettura della costante attualità del metodo Falcone, certamente fonte d’ispirazione continua e sicuramente irripetibile per originalità e genialità della matrice.

Augusto Cavadi – Applicando il “metodo” Falcone non pedissequamente, ma creativamente: dunque reinterpretandolo alla luce del proprio contesto professionale e sociale.

Continuità di Paolo Borsellino e della sua coerenza professionale e cristiana?

AP – Anche la morte di Paolo Borsellino ha lasciato cicatrici incancellabili in cui le commemorazioni grondanti retorica spesso non sono solo memento di esempi di vita, ma vetrine di conformismo. Il 1992 ha generato per la Magistratura, la Polizia di Stato e le Istituzioni una stele di dolore dalla quale è emersa, alla fine, la voglia di riscatto nazionale contro l’antistato e l’arroganza criminale. L’esperienza professionale di Paolo Borsellino è sempre stata caratterizzata da un’impronta umana fortissima ispirata a scelte ideologiche da rispettare, perché mai compromesse con la politica e il partitismo, e a vocazioni religiose permeate di senso del sacrificio, del dovere e di speranza cattolica. La profonda coerenza tra vita personale e professionale è stata il dono più grande che Borsellino ha lasciato ai suoi figli e a tutti quelli che, magistrati o forze dell’ordine, abbiano trovato nelle sue orme il senso di una missione professionale che includeva parametri di etica oltre che di mestiere.

AC – Premesso che ai miei occhi Borsellino è stato un cristiano ammirevole perché più “credibile” che “credente”, non capisco perché la Chiesa cattolica – di cui era fedele – non abbia attivato un percorso di canonizzazione come è accaduto per padre Pino Puglisi e per Rosario Livatino. (Spero che non gli venga attribuito come handicap il fatto di essere stato marito e padre di tre figli!). La sua lezione più eloquente dal punto di vista etico? Il suo approccio “non violento” con gli indiziati, con gli accusati, con gli stessi condannati: inflessibile con l’errore, umano con l’errante.

A quale domanda sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio vorrebbe trovare risposta?

AP – I giudici Falcone e Borsellino sono morti uccisi, come tanti uomini giusti, da mani di delinquenti mafiosi e da menti non necessariamente raffinatissime, a volte anche mediocri. Sono stati uccisi dalla solitudine, dall’ignavia, dal conformismo, dall’opportunismo ipocrita con cui lo Stato italiano non ha saputo e voluto tutelare le eccellenze dei suoi uomini migliori la cui professionalità è stata sempre e soltanto al servizio del Paese. Sono stati uccisi perché lasciati soli, non privi di scorta – tutti i poliziotti sono stati dilaniati insieme a loro – ma non adeguatamente tutelati e supportati nella valorizzazione delle vite personali e professionali. Magari da quelle menti mediocri o raffinatissime che dopo qualche anno parlavano di “Giovanni” o di “Paolo” pur avendoli conosciuti solo in contesti formali. Ho avuto l’immenso onore, per un certo tempo, di dividere momenti e attività investigative o semplicemente quotidiane indimenticabili. E ricordi e dolori non si nutrono di celebrazioni. Molti compagni di strada di quei giorni non sono più su questa terra e vorrei con tutto il cuore che le loro domande e i loro perché abbiano finalmente trovato risposte nel mistero infinito della misericordia divina.

AC – Vorrei una risposta di verità e giustizia alla domanda che si fanno da 30 anni i cittadini informati: fu solo Cosa nostra?

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