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A fine giornata il presidente del Consiglio Mario Draghi può tirare un sospiro di sollievo. Dal Consiglio europeo che ha aperto le porte dell’Ue all’Ucraina e la Moldavia l’Italia esce con un bicchiere mezzo pieno. La battaglia di Palazzo Chigi per il “price cap” – un tetto europeo al prezzo del gas (in queste ore si parla di una soglia di circa 90 euro a megawattora) – sta mostrando i primi risultati.

Nelle conclusioni del Consiglio pubblicate nella mattinata di venerdì c’è un riferimento esplicito. Cioè l’invito alla Commissione europea di valutare “la possibilità di introdurre tetti temporanei ai prezzi delle importazioni dell’energia, dove appropriato”. Non era scontato, in un summit tutto incentrato sul percorso di adesione dei nuovi candidati. La road map si fa più chiara ma la strada resta in salita. Difficile convocare un Consiglio straordinario sull’energia già a luglio. Entro settembre la Commissione produrrà un documento sul tetto ai prezzi, a ottobre ci sarà la discussione.

Per Draghi è comunque una semi-vittoria. Il premier è convinto che intervenire sulla bolla del mercato energetico sia un’urgenza assoluta. Con i prezzi del gas alle stelle – la scorsa settimana balzati del 43% dopo l’annuncio dei tagli alle forniture da parte russa – “Putin sta incassando le stesse cifre di prima e l’Europa sta agendo difficoltà immense”, ha ammesso in conferenza stampa a margine del Consiglio. Nel frattempo il fronte a favore di un tetto va allargandosi.

Accanto all’Italia ora ci sono Spagna, Francia, Irlanda, Grecia. Rimane il muro di Olanda e Germania, che però inizia a mostrare le prime crepe. La prima vede nel price-cap un ostacolo alla liberalizzazione del mercato energetico e non a caso: l’Olanda è un produttore di gas e Amsterdam è la sede principale degli scambi europei. Da Berlino avanzano un’altra tesi: un tetto al prezzo del gas porterebbe a un taglio drastico, definitivo delle forniture di gas dalla Russia. Gli eventi di queste settimane però smentiscono in parte i timori: la Russia “ha già tagliato le forniture” alla Germania, ricorda Draghi con la stampa, richiamando il blocco del 40% dei flussi da parte di Gazprom la scorsa settimana, che ieri ha spinto il ministro verde dell’Economia e del clima Robet Habeck ad attivare il piano d’emergenza per l’energia.

Anche per questo, spiegano fonti diplomatiche, se il price cap non è certo la panacea di tutti i mali, è una misura che permetterebbe di colpire il flusso in entrata nelle casse di Mosca e operare come una sanzione indiretta. Di alternative, questo il ragionamento a Roma, non se ne vedono. E infatti in conferenza Draghi ha tirato una stoccata indiretta alla Spagna, quel “Paese europeo” che ha scelto di “agire compensando gli importatori di gas che importano a prezzo di mercato e distribuiscono a un prezzo più basso grazie ai sussidi pubblici”. Un cortocircuito, dice il premier, perché “grazie alle interconnessioni delle reti in Europa gli altri Paesi vanno a comprare dove costa meno e questo avviene grazie al sussidio di questo Paese”.

Sul fronte delle adesioni Draghi torna da Bruxelles forte dello status di candidato all’Ucraina, difeso dall’Italia senza esitazioni fin dall’inizio della guerra. Resta il nodo di Albania e Macedonia del Nord, lasciate alla porta. Anche qui però si intravede uno spiraglio: dopo il veto del governo bulgaro, venerdì il Parlamento di Sofia ha aperto alla candidatura di Skopje.

L’Italia, ha ribadito Draghi, sostiene entrambe le candidature ma vuole dividere i destini dei due Paesi balcanici. Se lo stallo con la Macedonia del Nord dovesse continuare, ha detto il premier facendo sponda all’omonimo albanese, il presidente Edi Rama, Roma proporrà un decoupling delle procedure: “Noi siamo dell’idea che se dovessero emergere altri problemi per la Macedonia del Nord l’Albania debba procedere con i negoziati per conto proprio”.

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