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È molto probabile che il blocco di circa la metà delle produzioni petrolifere libiche non si risolverà in tempi brevissimi: lo stallo istituzionale libico, ora che la questione energetica è tornata cruciale con la guerra russa in Ucraina, si manifesta come una necessità da risolvere per non aggravare le già complesse dinamiche del mercato.

Quanto succede in Libia, dove la chiusura di alcuni campi pozzi e terminal marittimi è legata a uno scontro tra due fazioni che rivendicano il governo del Paese, dimostra chiaramente quanto sia delicata la scelta delle fonti di approvvigionamento energetico – elemento di carattere strategico per un Paese – e quanto questa sia legata fattori di stabilità che vano oltre il mercato.

Secondo Arturo Varvelli, direttore dell’ufficio di Roma dell’Ecfr, affidarci a regimi autocratici e Paesi instabili per la salute pubblica e la crescita economica, elementi che l’approvvigionamento energitco garantisce, è una scelta anche opinabile, ma in questo momento non rinunciabile perché è lì che si trova buona parte delle riserve e quelli sono gli interlocutori.

“La sintesi  del governo Draghi è cercare la diversificazione energetica, progetto strategico che non è stato fatto negli ultimi anni. L’Italia è straordinarimanete esposta alla dipendenza dalla Russia e ora ci accorgiamo dei rischi”, aggiunge Varvelli in una conversazione con Formiche.net.

Il governo Draghi ha fatto partire questa operazione di differenziazione e sganciamento dalla Russia iniziando da fornitori già attivi, come l’Algeria e l’Azerbaigian, e Paesi africani come Congo-Brazzeville, Angola e Mozambico, dove il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e il collega della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, sono di nuovo in visita in questi giorni.

Ad accompagnarli, come già successo in una serie di contatti precedenti nelle scorse settimane, il ceo di Eni, Claudio Descalzi. Eni lavora da molti anni in quei Paesi, mantenendo la propria presenza attiva nonostante situazioni difficili, instabilità e di scarsa sicurezza – una presenza che adesso permette un vantaggio diplomatico nel dialogare con questi interlocutori.

“Dal punto di vista ideale è certo che ci si ritrova a trattare anche con autocrazie, ma lo facciamo con la consapevolezza di limitare un’autocrazia più violenta ed espansiva come la Russia”, continua Varvelli, e dunque “stiamo facendo una scelta, senza dimenticare che al di là delle potenziali sanzioni una diversificazione andava fatta. Poi certo, questo è anche un modo immediato per essere meno esposti, meno impreparati, se le sanzioni europee sull’energia russa dovessero scattare”.

La scelta di sostituire gas con altro gas – ossia cambiare fonte di acquisto e approvvigionamento rispetto a quello russo, ma mantenere la stessa tipologia di materia prima energetica – fatta da Italia e altri Paesi europei fa pressupporre che nel corso dei prossimi mesi, forse entro la fine del 2022, la Russia sarà sottoposta a un qualche genere di embargo sui prodotti energetici, se la guerra e le sue violenze dovessero proseguire.

Più improbabile che Mosca decida di chiudere l’output, visto la centralità europea nelle esportazioni di gas (circa il 74 per cento del totale), che difficilmente in modo rapido sarà sostituita per quantità da altri nuovi acquirenti o nuovi acquisti maggiorati da vecchi clienti (differentemente a quanto succede con il petrolio, con l’India per esempio).

Non è chiaro tuttavia se l’embargo arriverà, perché c’è un freno tedesco e un’opposizione ungherese, che dimostrano come su questa sensibile questione ancora non si sia trovato un allineamento (da aggiungere: se non verranno bloccati gli acquisti dalla Russia, e se verranno aumentati gli approvvigionamenti da altrove, cosa si farà con il surplus che a quel punto si creerà?).

Secondo Varvelli, l’Ue dovrebbe in qualche modo intestarsi la cabina di regia: “Sembra di rivedere quello che è successo nelle prime fasi con i vaccini contro il Covid, quando ci fu un corsa senza tenere conto che le produzioni erano limitate”. Le preoccupazioni spagnole dopo l’accordo tra Italia e Algeria sono da esempio. “L’Europa sembra procedere in ordine sparso facendosi concorrenza, mentre servirebbe unione europea per cap ai prezzi, per investimenti infrastrutturali integrati, acquisti centralizzati (con dinamiche di mercato collegate)”, aggiunge il direttore dell’Ecfr.

“Perché ognuno – continua – ha punti di forza e debolezze: e pensare che la prima forma di integrazione europea nacque nel 1951 con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, quando nel Dopoguerra si pensò a necessità comuni per il rilancio economico che non dovevano essere terreno di contesa”.

L’integrazione degli acquisiti energetici potrebbe essere complicata dalla presenza nei vari Paesi europei di aziende del settore (a partecipazione statale in alcuni casi, comunque dall’alto valore strategico), ma tra le tante difficoltà — “in alcuni casi incomprensibili”, dice Varvelli — un valore aggiunto di questa “unione energetica europea” sarebbe la possibilità di “salvare il Green Deal”.

“Quello è un programma di trasformazione industriale che permette all’Europa di raggiungere una buona aliquota di indipendenza energetica, e dunque di sovranità strategica, colpito dalle conseguenze del conflitto ucraino, ma che con un approccio unito e univoco alla questione-energia potrebbe essere salvaguardato”.

In generale, questo tipo di approccio, per il direttore dell’ufficio romano del think tank paneuropeo, permetterebbe anche all’Europa di avere una visione più ampia, di agire con policy e leve politiche che vanno oltre il semplice acquisto di gas o materie prime energetiche di altro genere.

Perché all’Ue serve un’unione energetica. Parla Varvelli (Ecfr)

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